domenica 30 marzo 2008

Il governo si scusa per Bolzaneto

al voto
il manifesto 29.03.2008
L'Avvocatura dello Stato riconosce ufficialmente le torture nella caserma genovese nei giorni del G8. E rivela: fu Berlusconi a impedire la costituzione di parte civile. Che ci fu solo contro i manifestanti. Frenata sui risarcimenti I legali dei no global ribattono: «Riconoscimento importante, ma questo non cancella i danni subìti. Che ora vanno risarciti». Ma su questo sarà battaglia
Alessandra Fava
Genova

L'Avvocatura di Stato voleva costituirsi parte civile al processo per le torture di Bolzaneto e quindi chiedere i danni ai funzionari che compirono violenze e soprusi sugli arrestati, ma l'allora presidente del consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi, lo impedì. Lo ha detto ieri l'avvocato Matilde Pugliaro, che con l'avvocato Giuseppe Novaresi rappresenta l'Avvocatura di Stato al processo per le violenze di Bolzaneto, e nell'udienza di ieri ha chiesto scusa a tutte le vittime che sono transitate per la caserma nei giorni del G8: «Ci sia consentito esprimere le doverose scuse nei confronti di chi a Bolzaneto ha subito le vergognose vessazioni acclarate nel dibattimento, vergognose scuse che devono essere intese come provenienti direttamente dallo Stato italiano», sono state le parole testuali. Un gesto piuttosto inusitato che ha colpito molto anche la Procura, i pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello, anche se Pugliaro poi si è arrampicata sugli specchi per spiegare che lo Stato non intende dare nessuna provvisionale alle vittime, vale a dire nessun risarcimento, nemmeno quelli che dovrebbero essere versati alla fine del processo di primo grado.
Dopo la requisitoria dei pm e le arringhe degli avvocati di parte civile, ieri nel pomeriggio la parola è andata all'Avvocatura di Stato e la prima sorpresa è stata proprio la rivelazione su chi impedì la costituzione di parte civile: «Il fatto che lo Stato non si sia costituito parte civile non dipende da scelte processuali volontarie di questi difensori, bensì dall'assenza di autorizzazione di costituzione a parte civile che demanda alla Presidenza del consiglio», ha detto l'avvocato Pugliaro. Tra l'altro l'Avvocatura di Stato (con altri legali) ebbe invece tutti gli avalli governativi per la costituzione di parte civile al processo contro i 25 accusati di devastazione e saccheggio, tanto che nel dicembre scorso ci fu la richiesta di 2 milioni e mezzo di euro di danni, tradotta intanto in multe pecuniarie per alcuni condannati nella sentenza di primo grado. Su Bolzaneto si è proceduto in modo molto diverso. Sin dall'inizio a Roma qualcuno deve aver pensato che non bisognava rimarcare in nessun modo il comportamento vergognoso di alcuni pubblici ufficiali nemmeno quando torturano, pestano, insultano o inneggiano al duce. Insomma i 45 imputati tra poliziotti, polizia penitenziaria e carabinieri più medici e infermieri non andavano toccati, con la speranza che anno dopo anno su quei fatti scendesse l'oblio. Non è andata così. L'insistenza di parte della stampa italiana sulle torture avvenute a Bolzaneto non condannate in specifico dal nostro codice penale ha risvegliato ora anche l'attenzione di alcuni politici.
«Questa è la prima voce dello Stato in assoluto che ci chiede scusa», dice l'avvocato Riccardo Passeggi. La questione delle provvisionali, la richiesta di risarcimenti sui 20 mila euro a testa, solo un assaggio di quello che potrebbe essere chiesto poi in processi civili, non è secondaria: «Tutte le chiacchiere dei politici comunque non pagano le cure dentistiche della mia cliente, che perse allora sette denti e da sette anni aspetta di essere risarcita - dice ancora Passeggi - Quindi mi aspetto che il ministero faccia seguito alle scuse col pronto pagamento delle spese provvisionali».
Sui risarcimenti l'Avvocatura è stata invece oltremodo cauta e ha sostenuto che gli avvocati che difendono i ragazzi arrestati e violentati nella caserma non hanno spiegato bene la motivazione per cui chiedono i risarcimenti e in secondo luogo che i singoli poliziotti, Gom o carabinieri agivano a titolo personale. «L'Avvocatura cerca di sostenere che il rapporto funzionale si era interrotto perché i dipendenti delle varie polizie si sono comportati in modo talmente illegittimo che questo non poteva rientrare nelle loro funzioni e quindi agivano come privati cittadini. A questo punto nessun reato ricadrebbe sull'amministrazione dello Stato», spiega l'avvocato di parte civile Fabio Taddei.

Appalto «rosso» per il Dal Molin

il manifesto 29.03.2008
Gli Usa assegnano l'appalto per la costruzione della base di Vicenza a una joint venture composta dalla Cmc e dal Consorzio cooperative costruzioni di Ravenna. Due cooperative. Costo totale: 245 milioni di euro
Orsola Casagrande
vicenza

Sarà la Cmc di Ravenna a costruire la nuova base militare americana all'aeroporto Dal Molin di Vicenza. Il comando Setaf ieri ha reso noto il vincitore dell'appalto per la progettazione e la costruzione delle nuove strutture presso l'aeroporto. Oltre alla Cmc (Cooperativa muratori e cementisti) vincitore dell'appalto è anche il Ccc (Consorzio cooperative costruzioni), entrambi di Ravenna. Immediata la replica del presidio permanente no Dal Molin: «Cari Prodi, Costa, Bersani, D'Alema, Veltroni: quella base non si farà mai, perché le vostre bugie hanno le gambe corte, perché migliaia di uomini e donne lo impediranno, in maniera pacifica ma determinata».
Non è una sconosciuta, la coop «rossa» Cmc, al Patto di mutuo soccorso che lega il movimento di Vicenza a quelli contro le grandi opere in Italia. Perché la Cmc, oltre a partecipare agli appalti per la base americana di Sigonella, è anche la cooperativa che avrebbe dovuto costruire la Tav in Val Susa, in particolare il contestatissimo tunnel di Venaus. Quell'opera devastante, e non solo dal punto di vista del territorio ma anche della salute, che la resistenza dei valligiani ha impedito. «Inutile ricordare i legami stretti tra queste cooperative rosse e molti membri del governo Prodi e del commissario Costa - dicono dal presidio - Il ministro Bersani era stato presidente della Cmc di Ravenna, l'inaugurazione della nuova sede della Ccc di Bologna venne fatta in pompa magna da Massimo D'Alema». Insomma il dubbio è lecito. Tanto lecito che qualcuno, in tempi non sospetti, aveva scherzato sui nomi dei vincitori dell'appalto per la base americana. «Non sarà mica il Cmc?», si diceva ridacchiando (e il manifesto lo aveva anche scritto, un anno fa).
Il comando della Setaf ha reso noto in un comunicato che la commissione giudicatrice ha scelto il progetto presentato dall'impresa joint venture Cmc-Consorzio Cooperative Costruzioni. L'appalto, si apprende sempre dalla nota, è stato aggiudicato dal comando genio della marina degli Stati Uniti per un importo complessivo di 245 milioni di euro circa. I lavori saranno avviati quest'estate e la consegna della nuova installazione è prevista entro la metà del 2012. La nota della Sitaf sottolinea che «l'impresa si assume l'onere di costruire presso l'aeroporto Dal Molin, distante circa cinque chilometri dalla caserma Ederle, le strutture di supporto necessarie al consolidamento della 173ma brigata aviotrasportata, attualmente dislocata in tre sedi separate tra l'Italia e la Germania».
Si spiega inoltre che l'area dell'aeroporto del Dal Molin è stata «offerta dal governo italiano perché è l'area di proprietà del demanio militare più vicina alla Ederle che risponde ai requisiti di spazio necessari per la riunificazione della brigata a Vicenza». Infine la nota ribadisce che «il Dal Molin è un'installazione militare italiana già utilizzata dalla Nato e dall'aeronautica militare italiana. La nuova installazione resterà territorio italiano, sotto il controllo delle autorità militari italiane nel rispetto delle leggi italiane e regolata dagli accordi internazionali vigenti».
Alle manifestazioni organizzate ieri sera dal presidio permanente contro le perquisizioni di giovedì mattina e per consegnare le ampolle di acqua al cherosene (risultato dell'incidente all'oleodotto militare di qualche settimana fa), i giovani del presidio hanno gridato tutta la loro rabbia. «Altro che inderogabili impegni internazionali, altro che rispetto dei patti: hanno svenduto la nostra città per garantire un lucroso affare alle cooperative rosse loro amiche. Le stesse cooperative impegnate nella costruzione della Tav in val Susa, giusto per gradire. Ecco perché il buon Walter Veltroni, nel suo recente viaggio elettorale a Vicenza ha detto: la base si farà. Non vorrete mica far perdere un sacco di soldi ai nostri amici, vero?»
La lotta contro il Dal Molin entra dunque in una nuova fase. Dal presidio promettono: «A Monopoli giocherete un'altra volta, e non sulle nostre teste».

Elezioni, in gioco la partita dell'acqua

l'opinione
il manifesto 28.03.2008
Marco Bersani *

Non so se davvero, come racconta il mio amico Alex Zanotelli, Walter Veltroni abbia pianto nelle baraccopoli di Nairobi, prive di acqua potabile. Immagino l'abbia fatto pacatamente e serenamente, come si conviene a una persona che ha fatto della negazione delle passioni forti, fino all'annullamento del conflitto sociale, la cifra della sua candidatura a premier.
Altrettanto pacatamente e serenamente, il «nostro» in questi anni si è prodigato per consegnare il bene comune acqua nelle feroci mani del mercato, trasformando Acea - l'ex municipalizzata del comune di Roma - in una holding multinazionale che ha comprato l'acqua in Armenia e in Albania, in Perù e in Honduras. Così come, in stretta alleanza con la multinazionale francese Suez, ha «condizionato un quarto delle gare in Italia per la gestione del servizio idrico integrato», come recita la recente sentenza dell'Antitrust che le ha comminato oltre otto milioni di euro di multa.
Seguace della conclamata «modernizzazione» del paese, Walter Veltroni ha favorito l'espansione di Acea in tutto il Lazio, in Umbria e in Campania, fino a firmare col suo omologo fiorentino, Domenici, un protocollo d'intesa per l'unificazione degli Ato toscani, il cui unico denominatore comune è rappresentato dal socio privato. Acea, per l'appunto. A poco vale dunque appellarsi al cuore del principe (altrimenti perché non fare altrettanto con il re dell'altro polo?). Vale più la pena guardare in faccia la realtà e leggere i programmi elettorali, nei quali - nero su bianco - si parla espressamente di privatizzazione dell'acqua, sia che a dirlo sia il «pacato» Pd, sia che a affermarlo sia l'arrogante Pdl.
D'altronde, lo straordinario popolo dell'acqua che in questi anni ha prodotto una mobilitazione senza precedenti, intrecciando le decine di conflitti territoriali per costruire su di esse una vertenza e un movimento nazionale, ha consapevolmente scelto l'autonomia come cifra del suo agire e come humus per la ricostruzione di una democrazia dal basso, fondata sulla partecipazione sociale.
Non è un popolo che esprime un'esigenza e chiede a qualcun altro di ascoltarla. E' un movimento che vuole aprire varchi nella crisi verticale della democrazia rappresentativa, per comporre, sulla difesa e la ripubblicizzazione dell'acqua e dei beni comuni, un altro modello di organizzazione sociale, nuove relazioni che contrastino la solitudine competitiva, una politica radicalmente partecipativa.
La forza di questo movimento è resa evidente anche dal programma della Sinistra Arcobaleno, nel quale, andando ben oltre il generico appello alla proprietà e gestione pubblica dell'acqua contenuto nel vecchio programma dell'Unione, si parla espressamente di ripubblicizzazione dell'acqua e di ancoraggio alla legge d'iniziativa popolare promossa dal movimento per l'acqua.
Lo stesso candidato premier Bertinotti, nel ribadirne il concetto sulle pagine del manifesto, ha preso un fondamentale impegno in questa direzione.
E' un punto di partenza importante e positivo, ma che abbisogna di ulteriori passi affinché diventi pratica e politica concreta in tutti i territori. Perché sarà soprattutto dentro gli enti locali che la partita dell'acqua - e paradigmaticamente di tutti i beni comuni - si giocherà nel prossimo futuro.
In molti di questi territori, dove la Sinistra Arcobaleno si troverà a amministrare le città assieme al Partito democratico, un forte ancoraggio agli obiettivi e alle pratiche dei movimenti sarà l'unica possibilità per il nuovo soggetto di evitare il ripetersi della sconfitta dell'esperienza di governo e di reimmergersi dentro la fertilità del conflitto sociale.
Che ci sarà, checché ne pensi Veltroni.
* Attac Italia

«Processo da rifare. Mobilitiamoci»

Silvia Baraldini
il manifesto 28.03.2008
Giacomo Russo Spena

«Non è neanche una mezza vittoria». Non si fa prendere da facili entusiasmi Silvia Baraldini. Lei, nota militante politica, conosce alla perfezione quella giustizia americana che l'ha condannata a 43 anni di carcere per concorso in evasione e associazione sovversiva. Erano gli anni delle Black Panthers. Estradata nel 1999 in Italia, dopo quasi vent'anni di prigionia Usa, è uscita dal carcere solo nel 2006. «La battaglia inizia ora. - dice - Si deve riaprire il processo».

Un passo alla volta. Un commento sulla sentenza.
La trovo problematica. La Corte ha affermato che entro 180 giorni lo Stato della Pennsylvania può riaprire il processo: si deciderà nuovamente se dovrà essere condannato a morte o al carcere a vita. Se invece non verrà concessa la nuova udienza, la pena si trasformerà automaticamente in ergastolo. Questa sentenza non chiude una pagina ma la apre: l'obiettivo è arrivare a una nuova udienza che copri quei buchi neri emersi in questi anni.

Per te come andrà a finire?
Con l'ergastolo per Mumia.

Comunque un bene. Non verrà condannato a morte.
Quando la pena di morte viene eliminata è sempre un passo positivo, ma la vittoria sarebbe stata la possibilità di rimettere in discussione il processo. Gli stessi movimenti che lo hanno sempre sostenuto sono arrabbiati. La legge americana recita «Colpevole oltre ogni dubbio» e nell'udienza su Mumia i dubbi su come si è arrivati alla sua colpevolezza sono moltissimi.

E ora bisogna sperare che lo stato del Pennsylvania si esprima.
Questi 180 giorni sono quelli decisivi. Tutti si devono mobilitare, anche a livello internazionale. Lunedì negli Usa è già stata fissata una manifestazione per chiedere la riapertura del caso e per riaffermare la sua innocenza. Intanto il suo difensore ha chiesto un'udienza davanti a tutti i giudici della Corte d'appello per riargomentare la posizione di Mumia. Si dice disposto a andare fino alla Corte suprema. Poi bisogna assicurarsi che lo Stato proceda questa volta in maniera trasparente.

Ti aspetti mobilitazioni anche in Italia? Non c'è il rischio che molte persone vedano già una vittoria nella sospensione della pena capitale?
In Italia oltre a una sensibilità sul tema della pena di morte c'è un forte garantismo. Mi aspetto coerenza. Qui stiamo davanti a un processo farsa. Il giudice italo-americano ha fatto apertamente dichiarazioni razziste prima dell'inizio dell'istruttoria. Non poteva emettere la sentenza. Poi non si è fatta testimoniare gente presente la sera della sparatoria. Non coincidono nemmeno i proiettili. E' dal 1982 che Mumia si professa innocente e col passare degli anni sono emerse prove che rafforzano la sua tesi. Bisogna arrivare a un nuovo verdetto. Giusto.

Negli Usa soprattutto nella giustizia c'è un problema più ampio di impianto discriminatorio per gli afro-americani ?
Sicuramente c'è un problema. Soprattutto nella composizione delle giurie, quasi esclusivamente composte da bianchi, e nell'applicazione della pena di morte. Il più delle volte è su afroamericani. Le condanne maggiori sono arrivate alla fine degli anni settanta, quando c'era una lotta più sociale e esplicita dei diritti degli afro. Che lo Stato ha represso con durezza. Ma la discriminazione c'è anche ora. Negli Usa c'è un rapporto tra la polizia e le diverse comunità afro americane basato sulla violenza dei primi sui secondi. Ma solo raramente escono notizie di pestaggi o addirittura di uccisioni.

Ma qual è il dibattito interno agli Usa su l'uso della pena di morte? Mi sembra che il fronte dei contrari stia crescendo.
I cosiddetti abolizionisti sono sempre esistiti, ma quello che sta cambiando è il loro impatto nell'opinione pubblica. La percentuale tra favorevoli e contrari è ora 50 e 50. Prima gli americani erano per la maggior parte pro pena di morte. Adesso grazie al rilevamento del Dna si è scoperto che molti condannati a morte erano in realtà innocenti. Sono emersi dubbi allora su quante fossero le esecuzioni sbagliate prima. Ora si è aperto anche il dibattito sulle iniezioni letali: si è scoperto che non sono un metodo indolore.

La moratoria Onu non ha avuto alcun peso sulla decisione?
Non so. La moratoria è sicuramente un passo ma ora si deve trasformare in realtà. Altrimenti è una vittoria abbastanza vuota.

Battaglia contro la morte. Ma l'incubo non è finito

il manifesto 28.03.2008
Diventato cittadino onorario di Parigi e Palermo, l'ex militante del Black Panther Party è perseguitato, come è successo a Mandela, soprattutto per le sue idee e per le sue lotte contro l'apartheid. Storia del programma Cointelpro, ovvero come l'Fbi si sbarazzò dei leader neri
Roberto Silvestri

A parte l'atroce aggravante della pena di morte rischiata per oltre 26 anni, e finalmente scongiurata, questo caso Mandela di Filadelfia, non è ancora finito. La battaglia di Mumia Abu-Jamal (alias Wesley Cook), la «voce dei senza voce», per la revisione del suo processo-farsa continua, e non sarà facile - chiedetelo a Sacco e Vanzetti - vincerla, nonostante i tanti testimoni a favore del condannato, e mai ascoltati. «Una gallina - diceva Malcolm X - non può fare un uovo d'anatra». Il sistema così come è non può liberare gli sfruttati che lottano. Bisogna cambiare sistema.
Grazie però alla grinta e alla lucidità politica del protagonista indistruttibile di questo caso-limite del sadismo giuridico Usa (ma in 3000 dormiranno anche stanotte nel «braccio della morte»), e a un quarto di secolo di mobilitazione mondiale e firme illustri per salvare dalla forca questo african-american che è cittadino onorario di Parigi e Palermo, la corte federale d'appello della Pennsylvania ha rimandato ai giudici di Philadelphia la responsabilità di un verdetto degno di uno stato di diritto. Vedremo. Ma. Chi è stato membro del Black Panther Party, cioé ha osato alzare la testa qualche centimetro di troppo, deve pagare l'arroganza di quel gesto, Obama o non Obama. Ora però, almeno, ci è più chiara la tecnica di combattimento usata in 50 anni da una illustre democrazia.
In una prima fase, più pericolosa, di lotte sociali di massa anni 60, si assassinano «indirettamente» i leader troppo carismatici (Lumumba, Malcolm X, Martin Luther King...). Poi, negli anni 70, direttamente, e senza alcun pudore, tra calunnie e delatori, squadre terroriste dell'Fbi appositamente organizzate (programma Cointelpro) annichiliscono il fulcro delle organizzazioni antisistemiche di base. Basta ricordate la quindicina di dirigenti e simpatizzanti famosi del Bpp sterminati via via dalla polizia (Bobby Hutton, Fred Hampton, Mark Clark, fratelli Solidad, Move, simbionesi, perfino Jimi Hendrix, altro che quella fandonia dell'eroina...) o messi in condizione di non nuocere (incarcerati o perseguitati o esiliati tutti gli altri, da Seale a Huey Newton a James Forman...). E chi organizzò questo massacro? W.C.Sullivan, assassinato nel 1977...
Quindi, con Reagan, una ridicola semplificazione delle procedure e della possibilità d'appello che trasformò le prigioni americane in «mattatoi quotati in borsa» per ispanici e african-american. Soldi.
Infine una tortura cinese (nel senso più dei mandarini confuciani che del Pcc), «infinita» contro i sovversivi ancora in libertà, che colpisce via via tutti, non solo il prigioniero politico Mumia Abu-Jamal, ma anche, proprio nell'agosto '95, Rap Brown, altro leader storico del movimento per l'emancipazione mentale degli americani, e di qualunque sfumatura di colore siano.
Ha scioccato in questi anni il silenzio e il conformismo della grande stampa e dei mass media Usa, a parte l'eccezione cinematografica. Mumia, giornalista anche radiofonico, presidente dei reporter african-american al tempo dell'arresto, non può davvero ringraziare i colleghi. Hanno taciuto, o sussurrato appena. Struzzi. Forse perché i bookmaker davano per certa, nell'agosto '95, l'iniezione letale che lo aspettava? Sapete, i sondaggi... Mumia è un collega di grande umorismo e cultura, che, prove in mano, «sparava» contro il governo per migliorare le cose, smascherando ingiustizie e crimini dei potenti. «Solo così sarai a posto con la tua coscienza», parola di John Belushi reporter. I colleghi di Mumia non hanno però vivisezionato o contestato con la passione dovuta quel processo, né la giuria esplicitamenter razzista, né il verdetto di colpevolezza del 1982, né l'ostinazione reazionaria del più maniaco (perversione: le forche friggenti) giudice d'America, Albert Sabo. Eppure con Mumia se ne sarebbe andata anche qualche troppo sbandierata, da loro, virtù nazionale... Ora si potrebbero riabilitare come William Styron, Alice Walker, Rushdie, Woophi Goldberg, Darrida, Stone, Breytenbach, Byrne, Tim Robbins & Susan Sarandon, Edward Asner, Michael Moore, Ossie Davis, Spike Lee e i 600 che protestarono e fecero sit-in ovunque. I libri ci sono, e anche i film (l'ultimo, In prison my whole life di Marc Evans). Ma l'incubo iniziato il 9 dicembre 1982 non è ancora finito.

Annullata la sentenza contro Mumia Abu-Jamal

il manifesto 28.03.2008
La corte federale d'appello di Filadelfia ha detto no alla pena capitale per l'ex pantera nera, da 26 anni nel braccio della morte. Il tribunale non ha però accolto la richiesta di un nuovo processo che provi finalmente la sua innocenza
Matteo Bosco Bortolaso
New York

Niente boia per Mumia Abu-Jamal. Almeno per ora. Una corte federale d'appello si è rifiutata di confermare la pena di morte per l'ex pantera nera, simbolo della campagna contro le esecuzioni capitali. Nel 1981 Mumia uccise l'agente Daniel Faulkner, continuano a sostenere i tre giudici della corte d'appello del «terzo circuito», un'area che comprende anche la Pennsylvania, dove l'imputato è detenuto. Per i magistrati le opzioni sono due: condannare l'imputato all'ergastolo oppure chiamare una nuova giuria, che potrebbe decidere per il carcere a vita o la pena di morte. Un nuova udienza deve essere convocata entro 180 giorni. Una piccola apertura, insomma, rispetto a chi chiedeva un processo tutto nuovo nel quale l'ex pantera nera potrebbe provare la sua innocenza. Abu-Jamal ha sempre dichiarato di essere stato condannato da una giuria razzista, composta da dieci bianchi e due neri.
La sua carriera di attivista politico comincia quando era giovanissimo e si batteva nel 1968 contro il candidato segregazionista alle presidenziali, George Wallace. Esponente di spicco delle Pantere nere, giornalista radiofonico senza peli sulla lingua, Wesley Cook - questo il suo vero nome - faceva il tassista di notte per arrotondare. Fu accusato di aver ucciso nel dicembre del 1981 il poliziotto Daniel Faulkner, 25 anni, che stava arrestando suo fratello per una contravvenzione stradale. Cosa accadde veramente quella notte di 26 anni fa? La polizia avrebbe trovato Mumia privo di sensi, ferito da un'arma da fuoco, accanto al cadavere di Faulkner.
L'arma del delitto era diversa da quella che il giornalista-tassista portava legalmente nell'auto. Inoltre, ci sono dubbi sulla presenza di una «supertestimone», una prostituta conosciuta come Cynthia White. Diversi anni dopo, un altro uomo, Arnold Beverly, avrebbe confessato di essere l'omicida. E secondo la stenografa del tribunale, il giudice Albert Sabo, avrebbe detto: «Farò di tutto per aiutarli a friggere questo negro».
Già in una precedente sentenza, firmata dal giudice William Yohn nel 2001, emergevano dubbi sulla decisione che la giuria aveva preso nel 1982, a un anno dall'omicidio. Il magistrato diceva che era incostituzionale chiedere ai giurati di raggiungere l'unanimità per cercare eventuali attenuanti. Anche allora si davano 180 giorni alle parti per fare ricorso. Cosa puntualmente avvenuta, rimettendo in pista l'opzione della pena capitale.
Ieri, con la decisione della corte d'appello, la storia si è ripetuta. Anche dal complicato linguaggio che contraddistingue le pagine redatte dal giudice capo, Anthony J. Scirica, traspare che qualcosa, nel processo del 1982, è andato storto: «Le disposizioni della giuria e la forma del verdetto - si legge - hanno creato la ragionevole probabilità che alla giuria fosse preclusa la possibilità di trovare una circostanza attenuante, sulla quale non c'era stata l'unanimità». Un magistrato della corte d'appello, Thomas Ambro, si spinge più in là degli altri due colleghi, accogliendo la posizione di Abu-Jamal: secondo il giudice, l'esclusione di neri nella selezione della giuria va contro una decisione presa dalla corte suprema nel 1986, la cosiddetta Batson v. Kentucky. Ambro scrive di non voler «aprire le porte della prigione e capovolgere la condanna di Abu-Jamal», ma soltanto di capire se il fattore razza ha giocato un ruolo nella composizione della giuria. L'avvocato dell'ex pantera nera, Robert Bryan, ha espresso soddisfazione, ma ha precisato: «Non sono felice che due dei tre giudici siano rimasti sordi al razzismo che ha permeato questo caso».
Anche altri sostenitori di Mumia hanno reagito con cautela, organizzando manifestazioni di protesta. «Non è stata una vittoria, in nessun modo», ha dichiarato Pam Africa, membro del gruppo radicale Move. «Quella di oggi è stata la parodia della giustizia», ha detto Jeff Mackler, del gruppo «Mumia Abu-Jamal libero», che sperava in un processo tutto nuovo. Negli ultimi mesi, comunque, gli Usa sono entrati in una feae di moratoria «di fatto» sulla pena di morte, in attesa della decisione della Corte Suprema, che dovrà dichiarare se l'uso dell'iniezione letale è costituzionale o meno.

Il bis di Melfi, lo sciopero paga

il manifesto 28.03.2008
«Ci sono voluti quattro morti» per un confronto con la Fiat sulla sicurezza. Sciopero in tutto il gruppo e qualche impegno del Lingotto
Loris Campetti

Alla fine la Fiat ha ceduto, è la seconda volta che succede a Melfi. Ieri, però, non si discuteva la fine dell'apartheid salariale e normativa dello stabilimento lucano, che aveva visto la più straordinaria e vincente mobilitazione operaia che da quelle parti si ricordi, bensì la sicurezza sul lavoro. «Ci sono voluti quattro morti alla Fiat - come sostiene il sottosegretario alla salute Gianpaolo Patta - due solo a Melfi, perché la direzione del Lingotto accettasse un confronto con i sindacati, convocato dopo la morte del conduttore Domenico Monopoli dal prefetto di Potenza». L'incontro di merito con le rappresentanze sindacali si terrà il 3 aprile e affronterà, insieme alle tematiche legate alla sicurezza e al rispetto della nuova legge, alla prevenzione delle malattie professionali. A Melfi lo stesso tipo di disturbi fisici, tendiniti e dolori articolari, si manifestano prima che negli altri stabilimenti Fiat, secondo i delegati, in conseguenza della metrica che sottopone gli operai a ritmi e stress molto alti. Ma ci sono voluti un nuovo morto e il blocco dello stabilimento e dell'indotto per strappare un appuntamento, che pure alla direzione Fiat è costato molo.
La protesta degli operai era esplosa, in una fabbrica che nella sua breve storia ha spesso oscillato tra il silenzio e la rivolta, alle 12 di martedì, quando la notizia della morte del loro compagno è piombata nelle officine. Dovevano essere due ore di sciopero e invece un'assemblea improvvisata ha deciso il blocco a oltranza della produzione per convincere la direzione ad aprire finalmente un tavolo di trattativa. Cortei interni di 1.500 lavoratori hanno contribuito a costruire il clima giusto per reggere, tra chi denuncia da anni un'organizzazione del lavoro che fa a pugni con la sicurezza. Paradossalmente, il secondo morto in fabbrica nell'arco di tre mesi non ha sorpreso gli operai, ha però reso esplosiva una condizione percepita come intollerabile. E al mattino di ieri, mentre il grosso della forza lavoro presidiava i cancelli dello stabilimento, un gruppo di operai e delegati ha presidiato la trattativa davanti alla prefettura di Potenza. Dentro, infine, anche i rappresentanti della direzione Fiat di Melfi e di Torino. L'azienda si è impegnata a investire 5 milioni di euro nella sicurezza e ad adempiere a tutte le norme contenute nella legge 123 sulla sicurezza, sia pure chiedendo una deroga di un mese rispetto alla fine dell'anno in corso, previsto dalla delega alla legge concordata dal ministero della salute con la Confindustria. Ma su questo punto, e sulle inadempienze Fiat, torneremo più avanti. Al termine dell'incontro si è tenuta una nuova assemblea in fabbrica per valutare i risultati ottenuti: importante il fatto che l'azienda sia scesa a più miti consigli, ma il giudizio dei sindacalisti è ancora interlocutorio, nel senso che «l'incontro non è stato esaustivo», dice il segretario regionale della Fiom Giuseppe Cillis. L'assemblea ha deciso di sospendere lo sciopero e far ripartire le linee di montaggio, riconvocandosi però per il 4 aprile, l'indomani dell'incontro con la Fiat, per valutare la concretezza degli impegni aziendali. Per la seconda volta gli operai di Melfi hanno portato a casa un risultato.
Siccome la condizione di lavoro, i rischi e le violazioni aziendalin sono simili in tutti gli stabilimenti Fiat, per un'ora lo sciopero è stato generale. Con l'unica eccezione di Mirafiori, dove storicamente le fermate di un'ora a metà turno incontrano più d'una difficoltà, la protesta indetta da Fim, Fiom e Uilm ha raccolto ovunque un consenso generalizzato con punte fino all'80-90%, da Pomigliano a Cassino, da Termoli a Brescia e lo sciopero in molti casi ha coinvolto l'insieme delle ditte appaltatrici che lavorano per il Lingotto. Il coordinatore per la Fiom del settore auto, Enzo Masini, incassa il primo parziale risultato di Melfi ma non risparmia accuse alla Fiat che «finora si è sempre rifiutata di discutere le tematiche legate alla sicurezza e all'usura provocata dall'organizzazione del lavoro con le Rsu e le Rsl».
Ieri mattina il sottosegretario Patta ha fornito alla stampa una ricchissima documentazione che testimonia le ripetute violazioni della legge 123 sulla sicurezza, in tutti gli stabilimenti in cui sono state effettuate ispezioni. Si va dalla mancata redazione del documento unico di valutazione dei rischi, alla mancata indicazione dei costi relativi alla sicurezza nei contratti d'appalto, ad altre violazioni minori. A ogni convocazione da parte del ministero la Fiat ha sempre risposto negativamente, così come alla richiesta di collaborare su tutta la materia con le rappresentanze sindacali. «Solo al terzo morto in Fiat - ha ripetuto Patta - l'azienda ha iniziato a mettersi in regola con la normativa, ma solo per i contratti successivi all'agosto del 2007 quando è entrata in vigore la legge. E solo dopo il quarto morto si è seduta a un tavolo con il prefetto e il sindacato». Un atteggiamento negativo che coinvolge la stessa Confindustria ma non tutte le grandi aziende: Fincantieri, tre grandi porti, la Ilva, la ThyssenKrupp, hanno firmato accordi migliorativi sulla sicurezza, accettando l'istituzione del Rappresentante di sito per la sicurezza che consente a questi delegati di effettuare controlli in tutta la filiera e non solo nell'azienda capocommessa. «Ma la Fiat - conclude Patta - continua a rispondere no».
Cerignola, la città di Domenico Monopoli, l'operaio morto a Melfi precipitando dal tetto di una cabina di verniciatura, ha proclamato il lutto cittadino. E oggi ospiterà i suoi funerali.

Vicenza, elezioni al cherosene

Giallo su una nota della procura in cui si dice esplicitamente che «è necessario dare un segnale che i limiti sono stati superati». E arrivano le perquisizioni ai no base, comandate dal pm Pecori, padre del candidato sindaco Udc
il manifesto 28.03.2008
Perquisiti ieri mattina tre militanti no Dal Molin per un video su un presunto attacco all'oleodotto Nato. In piena campagna elettorale, cui il presidio partecipa con una sua lista
Orsola Casagrande
Vicenza

Tre perquisizioni per uno sconosciuto attentato a un oleodotto Nato, e una singolare frase scritta a mano sugli atti di fine indagine relativi all'occupazione della prefettura. Qualcuno ha scritto a penna sul documento, datato 21 gennaio 2007 e firmato dal procuratore capo Ivano Nelson Salvarani (e in possesso del manifesto), «forse è necessario dare un segnale che i "limiti" sono stati superati». Quali limiti? Che segnale? E poi, chi è l'autore di quella nota, il procuratore Salvarani o il pm Pecori, autore del mandato di perquisizione di ieri e padre del candidato sindaco dell'Udc al comune? Alla vigilia della campagna elettorale (in cui i Dal Molin si presentano alle comunali con una propria lista) e alla luce di quanto accaduto ieri, quell'annotazione suona a dir poco strana.
Ieri mattina è accaduto infatti che alcuni militanti del presidio permanente no Dal Molin hanno subito una perquisizione da parte di agenti della Digos di Venezia. Il mandato è stato emesso per sequestrare supporti informatici e hard disk nelle abitazioni di due giovani del presidio a Vicenza e un terzo giovane a Bologna. Secondo i magistrati i tre giovani sarebbero legati a un attentato compiuto nel luglio scorso all'oleodotto militare Spezia-Aviano, lo stesso che due settimane fa ha versato ettolitri di cherosene nelle acque vicentine a causa di un danno.
L'indagine ha molti lati oscuri. Lo spiega l'avvocata Aurora d'Agostino, sottolineando che «l'attentato è in qualche modo virtuale. Si presume che nella notte tra il 4 e il 5 luglio del 2007 nei pressi del tratto di oleodotto che si trova a Polese sia stata collocata una pentola a pressione piena di esplosivo. C'è stata una fiammata. Nessuno si è accorto di nulla fino a quando, ad agosto qualcuno ha mandato una rivendicazione video dell'attentato». Nel video si vede la pentola a pressione e quindi la fiammata. «La Digos di Venezia - dice d'Agostino - è risalita a un accesso internet al sito di cui è proprietario un soggetto cui era stato recapitato il video della pentola a pressione». Il computer che ha effettuato l'accesso pare sia stato utilizzato da una giovane del presidio permanente, fidanzata con un videomaker (il ragazzo perquisito a Bologna). Secondo la Digos la stessa ragazza avrebbe avuto «stretti contatti» con un altro giovane del presidio permanente che nella presunta notte dell'attentato si trovava (lo si sa da una telefonata effettuata con il cellulare) «nei pressi» del luogo dell'attentato. Nei pressi significa a dieci km dall'oleodotto.
«Naturalmente - dice l'avvocata dei giovani - la vicenda è complicata dal fatto che fra quindici giorni a Vicenza ci sono le elezioni per il sindaco». E il presidio permanente si presenta con una sua lista, Vicenza libera, e un candidato alla poltrona di primo cittadino, Cinzia Bottene. «E' chiaro - dice Olol Jackson del presidio - che se qualcuno crede di intimidirci con atti di questo genere non ci riuscirà». L'avvocata dei giovani coinvolti ha chiesto alla polizia postale di analizzare subito il materiale sequestrato e rendere pubblici al più presto i risultati delle indagini perché «non si può mantenere questo alone di sospetto sul presidio». Il provvedimento preso dal pm Paolo Pecori non era, secondo D'Agostino, motivato da urgenza particolare, visto che si cercherebbero «prove», per altro indelebili, relative a un fatto avvenuto sette mesi fa.
Ma ci sono altre «coincidenze» inquietanti in questa storia. Intanto il presidio, da quando il dieci marzo scorso è avvenuto l'incidente all'oleodotto, sta portando avanti una campagna di denuncia sugli effetti disastrosi di quell'incidente. Proprio oggi i no Dal Molin sarebbero stati davanti alla prefettura per consegnare le ampolle di acqua al cherosene raccolte in questi giorni. Inoltre il pm che ha ordinato le perquisizioni, Paolo Pecori, è il padre di Massimo Pecori, candidato sindaco dell'Udc.

Tibet, agli affari dell'Occidente non servono i diritti umani

l'intervento
il manifesto 27.03.2008
Vittorio Agnoletto *

«Boicottare le Olimpiadi di Pechino 2008 è un po' come boicottare noi stessi», è questo il pensiero che sembra attraversare le menti dei grandi (e aspiranti grandi) della terra, dal presidente George W. Bush al candidato premier italiano Walter Veltroni, che in questi giorni di cronaca feroce dal Tibet si sono ben guardati dall'affondare le critiche a Pechino. E le ragioni dal loro punto di vista ci sono tutte, se si considera che il valore degli scambi commerciali tra gli Usa e l'Ue da una parte e Cina dall'altra ammonta a 257 miliardi di dollari, che l'ammontare delle riserve valutarie cinesi ha superato per la prima volta la fatidica soglia dei 1.000 miliardi di dollari e che, per quanto riguarda il nostro paese, ci sono 1.500 aziende italiane che operano in joint venture su territorio cinese.
Numeri pesanti, da tenere ben presenti, soprattutto alla vigilia di una recessione Usa che significherebbe una recessione generalizzata mondiale e quindi la prima vera crisi strutturale dagli anni '70 a oggi. Meglio quindi scommettere sulla Cina come ancora di salvataggio dell'economia mondiale, e tollerarne la sistematica violazione dei diritti fondamentali, piuttosto che rimettere in discussione le fondamenta sui cui poggia il capitalismo del XXI secolo e di cui Pechino è il nuovo campione designato.
Un capitalismo che il regime di Hu Jintao e Wen Jiabao sta applicando fedelmente in Tibet, convinti (erroneamente!) dell'idea che anni di rapida crescita economica avrebbero smorzato le istanze separatiste. Ma così non è stato e, nonostante l'economia tibetana abbia superato il tasso di crescita medio della Repubblica popolare - grazie a generosi finanziamenti da Pechino, alla nuova linea ferroviaria Pechino-Lhasa e al milione di turisti che ogni anno si recano in Tibet - il processo di «modernizzazione» della regione ha dato l'esito opposto. Perché? In primo luogo perché i cinesi non si sono mai preoccupati di chiedere ai tibetani quale modello di crescita economica essi auspicavano. In secondo luogo perché favorendo le aree urbane a scapito di quelle rurali, lo sviluppo secondo il modello cinese non può che esacerbare la sperequazione dei redditi e mettere a repentaglio le tradizioni e gli stili di vita delle popolazioni locali.
L'urbanizzazione forzata e lo sfollamento delle campagne per fare spazio alle mega-infrastrutture e al carico di speculazioni che si portano dietro vanno di pari passo con le reiterate denunce da parte di Amnesty international e che riguardano:
- il giro di vite del governo contro avvocati e attivisti per i diritti umani che sono stati soggetti a lunghi periodi di detenzione arbitraria senza accusa, nonché a vessazioni da parte della polizia o di bande locali manifestamente tollerate dalla polizia;
- l'inasprimento dei controlli su giornalisti, scrittori e utenti di internet con numerosi quotidiani e giornali popolari chiusi e centinaia di siti web internazionali bloccati d'autorità;
- la pena di morte che continua a essere applicata in modo esteso per punire anche reati di tipo economico e non violento;
- l'assenza di qualsiasi progresso nella riforma del sistema della «rieducazione attraverso il lavoro», un sistema di detenzione amministrativa senza accusa né processo.
Al Parlamento europeo la difesa di questi diritti non è iniziata e non finirà con le olimpiadi. Ricordo ad esempio come recentemente proprio a Strasburgo abbiamo respinto la proposta delle destre e dei conservatori di cancellare l'embargo sulla vendita delle armi alla Cina. Allora, come oggi, dietro quella richiesta vi era l'obiettivo non dichiarato di molti governi europei di non compromettere i propri affari con Pechino. Lo stesso motivo che due settimane fa ha spinto il Dipartimento di stato americano a depennare la Cina dalla black list dei paesi colpevoli delle maggiori violazioni dei diritti umani nel mondo.
Boicottare le olimpiadi avrebbe senso solo se l'occidente fosse realmente disposto a mettere al primo posto nelle relazioni internazionali, e in particolare negli accordi commerciali, il rispetto dei diritti umani e relegare in secondo piano i profitti senza limite delle imprese transnazionali. Il caso Tibet e il caso Cina più in generale offrono in tal senso un'occasione imperdibile per riflettere sulle cause dell'imminente fallimento della globalizzazione liberista e prima la faremo questa analisi (come nazioni ricche), prima inizieremo la risalita e l'uscita dal tunnel in cui il capitalismo selvaggio degli ultimi vent'anni ci ha costretto. Citando un famoso film di Matthew Kassovitz, l'Odio (film culto sulle banlieue parigine), mentre i nostri governanti osservando un uomo che precipita dall'ultimo piano di un grattacielo si ripetono il mantra: «fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene», noi come movimento dovremo ricordargli sempre che: «l'importante non è la caduta ma l'atterraggio».

europarlamentare gruppo
Gue - Sinistra unitaria europea

Il lavoro uccide ancora. A Melfi

il manifesto 27.03.2008
Un operaio Fiat precipita da una cabina di verniciatura. E' il terzo «infortunio» in pochi mesi
Oggi sciopero Contro i ritmi e l'organizzazione, per chiedere sicurezza. Si ferma il gruppo Fiat
Loris Campetti

Domenico Monopoli era conduttore nel reparto verniciatura, un operaio esperto a cui la Fiat affidava anche l'incarico di intervenire sull'impianto quando si verificava qualche problema. Erano le 22,45 di martedì quando la linea aerea che trasporta lamiere lungo il reparto di verniciatura si è fermata per l'uscita dalla corsia di una «bilancella» ed è toccato ancora una volta a lui, che aveva appena iniziato il turno di notte, il compito di salire sopra la cabina di verniciatura dove sono posizionati i comandi per intervenire sull'impianto. Sul tetto c'è un passaggio «sicuro» con tanto di mancorrenti e una superficie solida che regge il peso dell'operatore. Chissà perché, invece, il tetto è crollato e Domenico è precipitato al suolo da un'altezza di diversi metri. E' stato trasportato prima all'ospedale di Melfi poi in quello di Rionero, ultima tappa del suo sfortunato viaggio in questo mondo. E' morto ieri, aveva 43 anni.
Al Lingotto sostengono che Domenico, su quel maledetto tetto della cabina, aveva seguito un percorso diverso da quello previsto, passando su un punto in cui la tenuta non era garantita e così il tetto stesso si sarebbe sfondato facendolo precipitare al suolo. Se le cose stanno così - l'unica dichiarazione ufficiale della Fiat è che «tutto è affidato alle indagini della magistratura» - che cosa ci faceva Domenico, operaio esperto, in un punto pericoloso? Altri operai sostengono invece che Domenico stesse camminando su un tubo, a mò di equilibrista, per intervenire rapidamente sul controsoffitto tenendosi con una mano sul soffitto. Non era il percorso canonico ma quello più breve. Probabilmente per far prima, risolvere in fretta il guasto e far ripartire l'impianto. «Non è necessario che ci sia lì un capo a istigarti a tagliare i tempi, a costo di violare le misure di sicurezza. Quel tipo di ordini, dentro una filosofia in cui la velocità delle macchine conta più dell'integrità fisica dei lavoratori, viene introiettato. Già una volta Domenico aveva subito un infortunio sul lavoro». Questa è la spiegazione a caldo di alcuni delegati. C'è un salto di qualità: negli anni scorsi gli operai del secondo turno di Melfi morivano durante il rientro a casa in auto, adesso direttamente in officina.
La Fiat nega e denuncia il tentativo di speculare su un «tragico incidente», rispetto al quale l'azienda non avrebbe responsabilità. Come in quello avvenuto sempre a Melfi pochissimi mesi fa, in cui un altro operaio perse la vita schiacciato da un carrello. Tre incidenti, di cui due mortali, in poco tempo: possibile che la colpa sia sempre degli operai? La Fiom non crede nella fatalità, denuncia le condizioni di lavoro «insostenibili» e, come prevede lo Statuto dei metalmeccanici Cgil, si costituirà parte civile. Il segretario generale Gianni Rinaldini chiede al ministero della salute di convocare le parti, aggiungendo che «sarebbe incomprensibile, e colposo, che la Fiat, come ha già fatto nelle settimane scorse, si sottraesse a un tale incontro». Il riferimento di Rinaldini è alla mancata risposta dei dirigenti del Lingotto alla convocazione fatta alcune settimane fa dal sottosegretario Gianpaolo Patta, «nonostante fossero state individuate svariate inadempienze proprio a Melfi» (inadempienze che oggi Patta renderà pubbliche nel corso di una conferenza stampa). «Una convocazione inventata sull'onda dell'emozione suscitata da alcuni infortuni - risponde Torino - a cui i nostri dirigenti Sata (così si chiama la Fiat a Melfi, ndr) hanno risposto no, specificando che come sempre avrebbero partecipato al tavolo di confronto confindustriale».
Il lavoro uccide o distrugge la vita di troppi operai. Nelle piccole aziende, nei cantieri o nei campi. Uccide e ferisce anche nelle grandi industrie, alla Fiat. Anche a Cassino, dove un operaio di una ditta esterna è morto, travolto dal camion che stava riparando. E nell'indotto Fiat, come pochi giorni fa a Chivasso. E ancora ieri a Mirafiori, un ragazzo ha subito un incidente, per fortuna non grave, in carrozzeria. L'infermeria era chiusa e così l'operaio è stato trasportato al Cto di Torino. I delegati chiedevano da tempo, inutilmente, che l'infermeria restasse sempre aperta, e non soltanto dalle 7,30 alle 11,30.
Ieri a Melfi i lavoratori di tutti i turni hanno effettuato due ore di sciopero, poi prolungato nel secondo turno per tutta la giornata e nella mattinata di oggi, in attesa dell'incontro fissato in prefettura alle 14. «Vedremo se la Fiat si farà vedere», dice Giorgio Cremaschi, segretario nazionale Fiom che denuncia «gravissime responsabilità Fiat» e polemizza sugli ottimismi diffusi dai dati Inail sulla «presunta» diminuzione degli infortuni. Oggi si fermeranno per un'ora i dipendenti di tutto il gruppo Fiat.

Davanti alla crisi, rovesciare i dogmi sulla spesa pubblica

il manifesto 27.03.2008
Riccardo Bellofiore

L'articolo di Halevi (20/3), che inquadra l'evoluzione più recente della crisi finanziaria, induce a qualche chiosa su come Europa e Italia entrino nel quadro. Che il discorso di Halevi riguardi anche il vecchio continente è evidente. Gli Stati Uniti sono stati assunti come modello per quel che riguarda precarizzazione del lavoro, capitalismo dei fondi pensione, liberalizzazione dei mercati. Gli Usa sono stati l'acquirente di ultima istanza, non solo per Asia e Cina, ma anche per i neomercantilismi europei. L'euro è stato residuale rispetto alla dinamica del dollaro.
Non ci vuol molto a capire che l'Europa va vista nella sua articolazione interna. Con almeno cinque aree cruciali, su cui si articolano le varie periferie, e l'Est. Un polo manifatturiero di qualità, tedesco e in parte francese, con i suoi satelliti. Un polo scandinavo di produzioni di nicchia di alta tecnologia. Il centro finanziario: Inghilterra, ma anche Lussemburgo e Olanda. Le produzioni tradizionali, i distretti e le piccole imprese dell'Italia. Infine Spagna e Grecia: la prima con una crescita trainata dalle costruzioni, entrambe con disavanzi con l'estero enormi. L'Europa cresce se vanno bene le esportazioni del cuore centrale, largamente mitteleuropeo. I profitti degli esportatori sono in larga misura interni all'area, i cui squilibri devono riprodursi affinché il meccanismo possa avere spazio di movimento.
Un universo messo in tensione da quel gigantesco frullatore che è la grande crisi di questi mesi. Chi scommetteva sullo sganciamento dell'Europa dalla recessione prossima ventura si sta ricredendo. Chi esporta in Cina o in Russia, in India o in Brasile, esporta in paesi colpiti di rimbalzo dalla crisi negli Stati Uniti. La recessione americana, condita con la svalutazione del dollaro, spingerà ad esportare di più in Europa. Ciò non toglie che in questi anni si sia ristrutturato, e alla grande. E' vero per il capitalismo tedesco, che esporta macchine e beni capitali, ed è più al riparo. La crisi del manifatturiero francese è stata attutita dalle imprese di media dimensione, oltre che dall'espansione del terziario. Discorso analogo vale per l'Italia. Nella crisi della grande industria e del nanismo, qualche rilancio ha funzionato, come alla Fiat. La media impresa del made in Italy, la subfornitura di qualità nella meccanica, nei mezzi di trasporto, nella metallurgia, hanno ridotto i volumi ma incrementato le esportazioni in qualità e valore.
Il disavanzo commerciale dell'eurozona è cresciuto (10,7 miliardi nel gennaio 2008, rispetto a 7,4 dell'anno precedente). Le importazioni sono state rincarate dal prezzo del petrolio e delle materie prime, ma le esportazioni hanno tenuto in maniera inattesa. Che l'industria tedesca, al momento, marci alla grande non stupisce. Giocano a suo favore tanto la svalutazione del dollaro e il boom del petrolio, che aiutano alcuni acquirenti dei loro beni capitali. Giocano ancora a suo favore gli aumenti salariali strappati nell'ultimo anno. Non stupisce neppure che la bilancia commerciale italiana, al netto del petrolio, sia tornata in attivo, o che le vendite in Russia, Opec, America Latina (un po' meno in Cina) vadano bene, trainate dal riposizionamento delle medie imprese per quel che le aree di esportazione o la qualità del prodotto. La rivalutazione dell'euro ha giocato ovunque come una frusta disciplinante della razionalizzazione e della ristrutturazione. Ma la crisi è dietro l'angolo. La Germania può pagare presto l'assenza di una fonte stabile di domanda interna. L'Italia patisce già ora la fragilità di uno sviluppo eterodiretto. E le nuove medie imprese multinazionali chiederanno una più intensa prestazione lavorativa.
Al sopraggiungere della recessione la Bce cederà un po' sui tassi. Ma non è stata una banca centrale inattiva: gioca cooperativamente con la Fed sulle iniezioni di liquidità, è attenta a intervenire tempestivamente per sostenere il sistema finanziario. Bada a due cose. La prima è evitare che una politica di bassi tassi di interesse stimoli uno sviluppo speculativo come quello statunitense. Ha poi così torto? La sinistra dovrebbe guardare alla qualità reale della crescita, e dunque ad un suo traino pubblico, non al basso costo del denaro. La seconda è che sia il potere d'acquisto dei lavoratori a pagare il conto dell'aumento dei prezzi del petrolio, delle materie prime, degli alimentari. A questo scopo i tassi d'interesse - fin che si può, cioè finché la crisi non arriva - non sono mai troppo alti.
Il divario tra Btp italiani e Bund tedeschi è cresciuto (0,150 nel giugno 2007, 0,650 il 10 marzo 2008), un'asta recente di Bot è andata eccezionalmente deserta. Eventi che non si vedevano da tempo. Si sono sprecati i toni tranquilizzanti, fuori d'Italia. Si capisce il perché. Non preoccupa, in sé e per ora, la bilancia commerciale. L'Italia fa più paura fuori che dentro l'eurozona. Tutti sanno che è lo shock finanziario globale ad aver fatto schizzare verso l'alto il prezzamento del rischio. Al di là dello scenario, possibile ma non probabile, che salti l'Europa in quanto tale, in ballo è la ristrutturazione industriale e geografica dentro l'Europa. Quello che c'è da attendersi è dunque altro: un impatto della crisi in arrivo, divaricante e violento, sulle varie macroregioni interne all' Europa, come anche all'interno dell'Italia.
C'entra qualcosa il Patto di Stabilità? Come nel caso dell'euro, anche qui bisognerebbe invertire la saggezza convenzionale. L'euro, come il mercato unico, è stato concepito dentro un disegno neomercantilista, e neoimperialista, europeo. Ciò non toglie che l'Europa sia un'area pressoché chiusa, potenzialmente autonoma sul piano valutario e finanziario, sulla cui scala sono pensabili politiche economiche alternative. Così, la riforma del Patto nella primavera del 2005 aprirebbe ad interessanti spazi di manovra. In casi di shock esterni o di crescita molto debole sono ammessi 'temporaneamente' disavanzi pubblici in eccesso del 3%; lo stesso vale per politiche di riforma miranti all'innovazione. Siamo oggi in una situazione in cui i bilanci pubblici europei sono spesso in troppa salute, a partire dalla Germania. Politiche coordinate di rilancio in deficit spending sarebbero insomma possibili. Certo, nel caso italiano, bisognerebbe andare contro l'opinione prevalente a livello comunitario e ragionare all'inverso. Partire dai contenuti della spesa da fare, più che da una rivendicazione generica e contabile sui disavanzi. Come scrive Galapagos, «rilanciare una ipotesi di controllo della produzione e della distribuzione del reddito». Però, per farlo, ci vorrebbe una sinistra. Non dico comunista: socialdemocratica. Se ci fosse, dovrebbe battere un colpo.

L'«anti Calearo» tra piazza e fabbrica

Ferrero
il manifesto 27.03.2008
E. Mil.
Padova

Al mercato di piazza Erbe, è pronto a dialogare con tutti (compresi i leghisti e la sguaiata «contestazione» di Clara, fan di Veltroni). Poi firma il «patto» con l'Arcigay insieme ad Alessandro Zan, per sposare nel nuovo parlamento la linea Zapatero sul riconoscimento totale dei diritti: dal matrimonio fino all'adozione. Infine si presenta davanti ai cancelli della Dab di Mestrino con gli operai. Con i volantini da distribuire, come faceva da giovane tuta blu ai cancelli della Fiat.
Paolo Ferrero, ministro del Prc e capolista della Sinistra Arcobaleno in Veneto 1, fa davvero campagna elettorale con uno spirito immutato. Domani mattina torna a volantinare davanti alle fabbriche dell'Alta padovana, dove il lavoro miete vittime e le tute blu hanno spesso la faccia dei migranti. Ma Ferrero non esita a sfidare il sindaco leghista delle ordinanze anti-immigrati Massimo Bitonci: in piazza Pierobon, il salotto buono di Cittadella (da un quarto di secolo feudo del Carroccio), terrà un comizio proprio in bocca al leòn. In serata, incontro-dibattito con Luciano Gallo, segretario regionale della Fiom, dedicato ai risultati eloquenti del questionario distribuito fra i lavoratori metalmeccanici. Già che c'è Ferrero annuncia il secondo decreto legge del governo sui flussi: «E' noto che avevo avanzato in consiglio dei ministri una semplice proposta: permesso di soggiorno a tutti coloro che hanno un lavoro. E' la stessa soluzione di buonsenso adottata da Sarkozy. Purtroppo, sono rimasto in minoranza. Ora almeno diamo una risposta ad altri 170 mila lavoratori migranti sugli 800 mila per cui i datori di lavoro hanno presentato domanda alla fine del 2007». E sul caso Alitalia ribadisce: «Era inaccettabile il piano francese che smantella la compagnia e riduce il personale. Bene che sia partita la trattativa con il sindacato. Se c'è una vera cordata italiana, al di là delle operazioni elettorali di Berlusconi, ancora meglio. Si potrà scegliere la migliore fra due opzioni, alla luce del sole».
Ferrero difende a spada tratta l'assessore Daniela Ruffini nel faccia a faccia con gli anziani al mercato: «Proprio qui a Padova in via Anelli nel giro di un anno è stata completato lo svuotamento di un ghetto. Includendo le famiglie regolari, cui è stata garantita una casa dignitosa, separandole da chi viveva di spaccio e delinquenza». A chi lo contesta, il ministro cita i suoi nonni sbarcati negli Stati Uniti: «Immigrati anche loro, ma nel giro di pochi anni con il diritto al voto. Perché oggi non deve valere anche da noi? Non posso transigere sui diritti di chi lavora e contribuisce a pagare l'Inps. Altrimenti diventa apartheid».
Alla fine, glissa esclusivamente sulle tante tensioni politiche dentro la Sinistra Arcobaleno del Veneto. Le stesse sperimentate da Anna Donati (Verdi) alla presentazione delle liste o da Francesco Caruso, bersaglio di una torta in faccia. Ferrero ridimensiona l'episodio: «Non vedo il problema. Siamo tutti insieme ma non è una gabbia. Siamo un'opportunità per chi non vuole votare paròn Massimo Calearo, che non è certo uomo di sinistra. Agli elettori del Pd offriamo un'alternativa più che utile». Dopo di lui, oggi a Padova arriva Oliviero Diliberto, che poi sarà a Treviso a sostenere Nicola Atalmi, il consigliere regionale del Pdci candidato a sindaco nella città dello «sceriffo» Gentilini.

I poveri non esistono

il manifesto 27.03.2008
Eduardo Galeano

Una bugia. Fino a pochissimo tempo fa, i grandi mezzi di comunicazione ci regalavano, ogni giorno, cifre trionfali sulla lotta internazionale contro la povertà. La povertà si stava battendo in ritirata, sebbene i poveri, male informati, non si accorgessero della buona novella. I burocrati meglio pagati del pianeta, adesso, stanno confessando che i male informati erano loro.
La Banca Mondiale ha diffuso l'attualizzazione del suo International Comparison Program. Al lavoro hanno partecipato, insieme alla Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Nazioni Unite, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico e altre istituzioni filantropiche. Là gli esperti correggono alcuni piccoli errori dei rapporti precedenti. Fra le altre cose, adesso veniamo a sapere che i poveri più poveri del mondo, i cosiddetti indigenti, sono cinquecento milioni in più di quelli che comparivano nelle statistiche. Inoltre, adesso sappiamo che i paesi poveri sono alquanto più poveri di quanto dicessero i numerini, e che la loro disgrazia è peggiorata mentre la Banca Mondiale vendeva loro la pillola della felicità del libero mercato. E come se non bastasse, risulta che la disuguaglianza universale fra poveri e ricchi era stata misurata male, e su scala planetaria l'abisso è ancora più profondo di quello del Brasile, paese ingiusto, se ce ne sono.
Altra bugia. Allo stesso tempo, un vicepresidente della Banca Mondiale, Joseph Stiglitz, in un lavoro realizzato con Linda Bilmes, ha studiato i costi della guerra in Iraq. Il presidente George W. Bush aveva annunciato che la guerra avrebbe potuto costare, al massimo, 50 mila milioni di dollari, il che di primo acchito non sembrava troppo caro, trattandosi della conquista di un paese così ricco di petrolio. Erano cifre tonde, o, piuttosto, quadrate. La strage dell'Iraq va avanti da più di cinque anni, e in questo periodo gli Stati Uniti hanno speso un milione di milioni di dollari uccidendo civili innocenti. Dalle nuvole, le bombe uccidono senza sapere chi. Sotto il sudario del fumo, i morti muoiono senza sapere perché. Quella cifra di Bush basta appena per finanziare un trimestre di crimini e discorsi. La cifra mentiva, al servizio di questa guerra, nata da una bugia, che continua nella menzogna.
E ancora un'altra bugia. Quando ormai tutti sapevano che in Iraq non c'erano altre armi di distruzione di massa all'infuori di quelle che usavano gli invasori, la guerra continuò, sebbene avesse dimenticato i suoi pretesti. Allora, il 14 dicembre 2005, i giornalisti domandarono quanti iracheni fossero morti nei due primi anni di guerra. E il presidente Bush parlò del tema per la prima volta. Rispose: circa trentamila, più o meno. E subito dopo fece una battuta, confermando il suo senso dell'umorismo sempre opportuno, e i giornalisti risero. L'anno dopo, reiterò la cifra.
Non chiarì che i trentamila si riferivano ai civili iracheni la cui morte era comparsa sui giornali. La cifra reale era di gran lunga maggiore, come lui ben sapeva, perché la maggioranza delle morti non si pubblica, e ben sapeva pure che fra le vittime c'erano molti vecchi e bambini. Quella fu l'unica informazione fornita dal governo degli Usa sulla pratica del tiro a segno contro i civili iracheni. Il paese invasore tiene il conto dettagliato solo dei suoi soldati caduti. Gli altri sono nemici o danni collaterali, che non meritano di essere contati. E in ogni caso, contarli risulterebbe pericoloso: quella montagna di cadaveri potrebbe causare una brutta impressione.
E una verità. Bush viveva i primi tempi della sua presidenza quando il 27 luglio 2001 domandò ai suoi compatrioti: potete immaginarvi un paese non in grado di coltivare alimenti sufficienti per sfamare la sua popolazione? Sarebbe una nazione esposta a pressioni internazionali. Sarebbe una nazione vulnerabile. E per ciò, quando parliamo dell'agricoltura americana, in realtà parliamo di una questione di sicurezza nazionale. Quella volta, il presidente non mentì. Lui stava difendendo i favolosi sussidi che proteggono la campagna del suo paese. L'agricoltura americana significava e significa unicamente l'Agricultura degli Stati Uniti. Tuttavia, è il Messico, un altro paese americano, quello che meglio illustra i suoi azzeccati concetti. Da quando ha firmato il trattato del libero commercio con gli Stati Uniti, il Messico non coltiva alimenti sufficienti per le necessità della sua popolazione, è una nazione esposta a pressioni internazionali, ed è una nazione vulnerabile, la cui sicurezza nazionale corre un grave rischio: oggigiorno, il Messico compra dagli Stati Uniti 10 milioni di dollari di alimenti che potrebbe produrre; i sussidi protezionisti rendono impossibile la concorrenza; le tortillas messicane continuano ad essere messicane per le bocche di coloro che le mangiano, ma non per il mais che le fa, importato, sussidiato e transgenico; il trattato aveva promesso prosperità commerciale, ma la carne umana, contadini rovinati che emigrano, è il principale prodotto messicano di esportazione. Ci sono paesi che sanno difendersi. Sono pochi. Per questo sono ricchi. Ci sono altri paesi allenati per lavorare alla loro perdizione. Sono quasi tutti gli altri.
(Copyright Ips - traduzione di Marcella Trambaioli) eduardo galeano

sabato 29 marzo 2008

La guerra di Bush

il manifesto 26.03.2008
Quattromila morti E allora?
Michael Moore

Doveva capitare la domenica di Pasqua, no? che il quattromillesimo soldato americano morisse in Iraq. Fatemi risentire quel folle predicatore, volete? sul perché forse Dio, nella sua infinita saggezza, non abbia esattamente benedetto l'America in questi giorni. Qualcuno si sorprende? 4.000 morti. Stime non ufficiali dicono che possono esserci più di 100mila feriti, offesi, o mentalmente rovinati da questa guerra. E potrebbero esserci un milione di iracheni morti. Pagheremo le conseguenze di tutto ciò per lungo, lungo tempo. Dio continuerà a benedire l'America.
Dov'è Darth Vader in tutto questo? Una reporter della ABC News questa settimana ha detto a Dick Cheney, rispetto all'Iraq, che «due terzi degli americani dicono che non vale la pena di combattere». Cheney l'ha stoppata con una sola parola: «Allora?». Allora? Come in «Allora che?». O come in «Fanculo, non può fregarmene di meno». Vorrei che ogni americano vedesse Cheney che gli mostra il virtuale dito medio: cliccate http://thinkprogress.org/2008/03/19/cheney-poll-iraq/ e diffondete. Poi chiedetevi perché non ci siamo ribellati e non abbiamo cacciato lui e il suo burattino dalla Casa bianca.
I democratici, negli scorsi 15 mesi, hanno avuto il potere di staccare la spina alla guerra - e hanno rifiutato di farlo. Cosa dobbiamo fare? Continuare ad affogare nella nostra disperazione? O diventare creativi, davvero creativi. So che molti di voi leggendo queste righe avranno l'impudenza o l'ingenuità di rivolgersi al vostro deputato locale. Lo farete, per me?
Cheney ha passato il mercoledì, quinto anniversario delle guerra, non a piangere i morti che ha ucciso, ma a pescare sullo yacht del sultano dell'Oman. Allora? Chiedete al vostro repubblicano preferito che ne pensa.
I Padri fondatori non avrebbero mai pronunciato quelle presuntuose parole, «Dio bendica l'America». Per loro sarebbe suonato come un ordine anziché un'invocazione, e non si ordina a Dio, anche se sei l'America. In effetti essi erano preoccupati che Dio potesse punire l'America. Durante la Rivoluzione George Washington temeva che Dio avrebbe reagito male con i suoi soldati per il modo in cui si stavano comportando. John Adams si chiedeva se Dio potesse punire l'America e farle perdere la guerra, giusto per provare il suo argomento che l'America non era degna di vincere. Essi credevano che sarebbe stato arrogante ritenere che Dio avrebbe benedetto soltanto l'America. Quanta strada abbiamo fatto da allora.
Ho visto sulla Pbs che che Frontline di questa settimana conteneva un documentario intitolato «La guerra di Bush». Io la chiamo così da molto tempo. Non è «la guerra dell'Iraq». L'Iraq non ha fatto nulla. L'Iraq non c'entra con l'11 settembre. Non aveva armi di distruzione di massa. Invece aveva cinema e bar e donne che vestivano come volevano, una consistente popolazione cristiana e una delle poche capitali arabe con una sinagoga aperta. Ma tutto questo, adesso, non c'è più. Proiettate un film e vi spareranno un colpo in testa. Più di cento donne sono state sommariamente giustiziate perché non si coprivano la testa con un fazzoletto. Sono felice, come americano benedetto, di avere contribuito a tutto questo. Io pago le tasse e questo significa che ho contribuito a pagare per questa libertà che noi abbiamo portato a Baghdad. Allora? Dio mi benedirà?
Dio benedica tutti voi in questa settimana di Pasqua in cui entriamo nel sesto anno della Guerra di Bush. Dio aiuti l'America. Per favore. © michael moore

Viaggio a Tent city tra i neo baraccati

il manifesto 26.03.2008
Finire in tendopoli Con la crisi dei mutui, negli Stati uniti sempre più persone perdono la casa. Alla periferia di Los Angeles è sorta una tendopoli di nuovi homeless, mentre le agenzie immobiliari si buttano sulle case pignorate
Luca Celada
Los Angeles

Sono le undici del mattino in questa tendopoli schiacciata fra i binari della Southern Pacific e la pista dell'aeroporto di Ontario, nell'hinterland di Los Angeles. Il sole è già rovente e le operazioni di sgombero procedono con relativo ordine. Un dozzina di agenti della polizia tiene d'occhio le cinquanta persone che fanno la fila davanti a una tenda marcata «registration». Al banco danno nome, cognome ed estremi anagrafici al funzionario che registra e, in base alle risposte, assegna bracciali di plastica di diversi colori: bianco approvato, rosso respinto, viola ulteriori accertamenti necessari. Il municipio di Ontario ha deciso che solo chi dimostra una «trascorsa residenza» (diabolico requisito per chi è per definizione senza fissa dimora) nella città potrà rimanere nell'accampamento aperto lo scorso autunno per ospitare i senzatetto e la cui popolazione da allora è cresciuta fino a oltre 400 persone che si dividono l'acqua di due pompe da giardino, sei bagni portatili e alcune docce fredde da campo.
La nuova depressione
Lo sgombero, la polvere e la spazzatura sono gli stessi di un qualunque accampamento di marginalità urbana; ma qui riportano alla mente anche quello in cui arriva la famiglia Joad dopo aver attraversato l'America sul proprio camion scassato in Furore, nell'adattamento di John Ford del romanzo in cui John Steinbeck raccontò la grande depressione e i suoi effetti devastatanti sulle famiglie americane. I Joad erano oakies, transfughi della devastazione del dust bowl nel Midwest e quando, come migliaia d'altri, giunsero infine nell'anelata California, si ritrovarono in un campo profughi affollato di famiglie disperate e bambini denutriti a San Bernardino, cioè proprio a un tiro di schioppo da Tent City che, 80 anni dopo, ne reincarna i fantasmi. E ha anche il suo Tom Joad: è Michael, sulla quarantina, alto e magro, faccia abbronzata e barbuta, occhi intensamente verdi che sembrano quelli di Henry Fonda.
«Ma ti pare giusto?» mi dice, «15 anni di esercito, al servizio del mio paese e ora mi mettono un bracciale al polso e mi dicono che devo andarmene» aggiunge mostrando il nastro di plastica rossa che segna il suo destino, «manco fosse la Gestapo». «Stampa italiana, eh?» aggiunge adocchiando il mio tesserino, «mi ricordo la Rai, la guardavo sempre da bambino, quando con mia madre viaggiavamo per l'Europa».
Michael racconta una storia romanzesca, un'infanzia passata con la madre psicologa sempre in viaggio, spesso in barca fra Rodi e Santa Maria di Leuca, una scuola in Svizzera poi a Londra. È difficile capire quanto ci sia di vero, ma intanto passa dall'inglese all'italiano al francese allo spagnolo, perfetto e con inconfondibile cantilena messicana. «Uscito dall'esercito stavo male, non ci stavo con la testa, mi facevo, finché ho deciso di ripulirmi, andare in Messico, ricominciare da zero. Per dieci anni ho abitato in una fattoria; laggiù ho una moglie, campi, capre. Poi un paio di anni fa sono tornato qui nel mio cosiddetto paese. Voglio alzare un po' di soldi, da due anni ogni mese faccio un vaglia di 100 dollari a mia moglie». In altre parole, come milioni di messicani, Michael, veterano, bianco, sussiste nel norte: un'esistenza marginale e invisibile in cui lavorare non vuol dire necessariamente potersi permettere una casa.
Tent City gli offriva una tenda, un posto per dormire e un senso di comunità; ora è tornato senzatetto di categoria «b», dovrà arrotolare la tenda e tornarsene per strada, sotto i cavalcavia, ovunque purché - come ha decretato la giunta di Ontario - sia fuori dal territorio cittadino. «15 anni di esercito», commenta amaro Micahel, «e ora il mio nemico è il mio paese. Ma come si fa a combatterlo?».
Mentre la maggior parte dei suoi residenti sono stati dispersi, Tent City ha acquistato notorietà. I giornali locali hanno seguito la vicenda; sono passate troupes della tv francese e inglese, una foto del campo è apparsa sul New York Times per illustrare un articolo che paragonava l'attuale crisi economica alla grande depressione. Come i campi profughi di Furore, Tent City è diventata il simbolo della crisi - un subprime village per quelli che hanno perso la casa, ipotecata dalle banche dopo che il mutuo capestro si è rivelato troppo caro. La realtà non è esattamente quella dipinta dai media, una manciata di persone che avevano perso la casa da poco c'erano a Ontario, ma la stragrande maggioranza erano homeless «cronici», veterani, tossicodipendenti, psicolabili, gente caduta da un pezzo attraverso i pochi brandelli di sicurezza sociale residui e andata a ingrossare un popolo della strada che nella sola contea di Los Angeles annovera oltre 120 mila persone.
Tendopoli spuntano a downtown Los Angeles, San Francisco, Fresno, Sacramento, nei canyon c attorno a San Diego. La verità è che qui, come in ogni città americana, vive una classe invisibile, abbandonata a se stessa. «Cerchiamo di fare quel che possiamo per loro», mi spiega la coordinatrice delle Catholic charities, che a Tent city gestisce, quando può, la distribuzione di generi alimentari, «ma i problemi sono strutturali. Per questa gente non esistono reti di sicurezza e il problema si aggraverà ora che sempre più persone sono destinate a perdere la casa».
Per la crisi dei mutui subprime, nel paese più ricco e potente del mondo è destinata a dilatarsi la scandalosa moltitudine di cittadini che pernottano in automobili, su marciapiedi, in scatole di cartone, a volte coi figli, spesso con un lavoro e però sotto la soglia della povertà. La casa è l'epicentro della crisi di un'economia che ha scoperto di aver basato un decennio di espansione su un bluff, quello dei mutui che hanno drogato lo sviluppo con massicce dosi di ricchezza virtuale prelevate dalla bolla immobiliare. Una speculazione gigantesca con la connivenza della finanza che ha piantato i pilastri dei colossi di Wall Street nell'argilla del precariato marginale, della new poverty. Un intero settore è nato attorno al business del credito proditorio, della vendita di case a chi non avrebbe mai potuto permettersele, con promesse di mutui capestro a basso tasso d'interesse iniziale ma con giganteschi costi nascosti, pagamenti «pallone» destinati a scattare pochi anni dopo, affogando i mutuatari.
Il tour dei profittatori
Milioni di questi mutui subprime sono stati poi venduti dai creditori originali in pacchetti con eufemismo definiti «prodotti finanziari innovativi», via via ad altre banche e fondi di investimento, «ripuliti» e passati di banca in banca, spargendo il virus in fondi ed hedge funds, risalendo la china dall'immobiliare loffio di periferia alla finanza rarefatta di Wall Street. Riciclaggio insomma. Se non di denaro, di «cattivo rischio» sempre più diluito e lontano dalle sue equivoche radici.
Operazioni al limite della truffa che sono figlie morali della deregulation dell'era Enron e Halliburton e che ora hanno pagato i dividendi di un'economia della povertà, un liberismo rapace e neo reaganiano che mette in conto una classe permanente di senzatetto mentre sgrava le tasse ai ricchi, tende trappole ai poveri e avalla l'economia ombra delle grandi corporations finanziarie che operano al di fuori di ogni regulation. Oggi, dopo il collasso, il debito collettivo delle ipoteche supera di 839 miliardi di dollari il valore complessivo dei beni immobili e il parere maggioritario degli addetti è che siamo solo gli inizi. Non che ci sia bisogno di esperti per confermare l'attuale stato delle cose - basterebbe iscriversi a uno delle dozzine di foreclosure tours («foreclosure» è l'esproprio di una casa da parte della banca creditrice quando il mutuo va in sofferenza: e nei prossimi 12 mesi sono previste un milione di nuove foreclosures).
I «tour» organizzati da agenti immobiliari partono ogni settimana dalle principali città americane caricando potenziali compratori alla ricerca di una affare imperdibile nelle periferie punteggiate di case ipotecate - una nuova speculazione sul sogno americano. Intanto a Tent City si sbaracca. Come dice Michael: «A noi, a tutta questa gente, basterebbe ridare una misura di dignità, come fece Franklin Roosevelt quando rimise in piedi questo paese e fece tornare la gente al lavoro. È tutto quello che chiediamo».

Rifiuti, lettere minatorie a Sodano (Prc)

il manifesto 26.03.2008

Due minacce in 10 giorni. Stavolta, il senatore della Sinistra arcobaleno è finito sotto scorta. Negli ultimi dieci giorni, infatti ha ricevuto due buste contenenti proiettili inesplosi entrambe corredate da lettere minatorie. Il senatore, presidente uscente della commissione ambiente del senato e autore della relazione sul ciclo dei rifiuti era stato minacciato già lo scorso 17 marzo. In pieno giorno e sotto gli occhi di decine di potenziali testimoni, qualcuno ha sollevato la saracinesca del comitato elettorale di Pomigliano d'Arco e ha depositato all'interno una busta con proiettili e una lettera con minacce di morte: otto proiettili, 6 calibro 38 special e 2 calibro 22 e la lettera che invitava il senatore ad andare via da Pomigliano, città che «deve essere libera dai comunisti». Domenica sono arrivati altri proiettili ed una nuova lettera: «Non hai capito la lezione, se non te ne vai prima del 13 aprile ti ammazzeremo».
Sempre ieri due missive minatorie sono arrivate anche a Fabrizio Cicchitto e Altero Matteoli del Pdl. Le lettere sono giunte in via dell'Umiltà.

Chi tiene la democrazia sotto sequestro?

il manifesto 25.03.2008

La politica della guerra dopo l'11 settembre, la crisi di legalità
e lo «scontro di religione» dentro la società americana
Brown: Il fenomeno Obama rivela l'urgenza per la sinistra di ritrovare un senso «religioso» della speranza e del futuro
I. D.

Potere e libertà sono due questioni centrali nel tuo lavoro. Un caso raro nel panorama filosofico-politico di sinistra, dominato negli ultimi decenni dalle questioni dell'equità, dei diritti, delle procedure - mentre la libertà, in versione liberista, diventava una bandiera della destra. Tu hai analizzato questo quadro in States of Injury (1997), spostando l'attenzione sul desiderio di libertà e sul suo background storico e psichico. Il paradigma neo-liberista dell'ultimo decennio, che successivamente hai messo a fuoco in Neo liberalism and democracy, ha cambiato i termini del problema, e come?
Quando ho cominciato a lavorare sulla scomparsa della libertà dall'agenda e dal pensiero critico della sinistra, avevo in mente due aspetti della cultura politica europea e americana degli anni '80 e '90: quella che è stata poi chiamata «politica dell'identità», cioè le rivendicazioni di inclusione e di uguaglianza dei gruppi definiti dalla ferita dell'esclusione; e il disperato tentativo della sinistra di aggrapparsi a un welfare in rapida disintegrazione, tentativo che la spingeva ad abbracciare alquanto acriticamente lo statalismo assistenziale gettando a mare la sua precedente critica delle dimensioni regolative e oppressive del capitalismo e dello Stato. Ero preoccupata che, per queste due vie, la sinistra stesse sempre più rinunciando al valore della libertà intesa come l'opposto del dominio, della regolazione e anche della protezione, e dunque all'idea che gli esseri umani possano conquistare un potere collettivo sulle condizioni della loro vita. Ma in seguito, la saturazione del campo del politico da parte del neoliberismo, ovvero il suo assurgere a paradigma di razionalità non solo economica ma politica, ha aggravato i termini del problema. La razionalità neoliberista riduce la libertà a scelta di mercato e definisce il soggetto «libero» come un imprenditore di se stesso in tutti i campi dell'esistenza, dalla professione alla sessualità. Questo toglie valore perfino alla limitata promessa di libertà politica come partecipazione e sovranità popolare propria delle democrazie liberali. E pone nuovamente alla sinistra il problema del che fare quando i soggetti e la cittadinanza si costruiscono senza alcun visibile desiderio di libertà dal dominio del capitale o dello stato.
Sempre in «States of Injury» hai analizzato la politica dell'identità e i suoi paradossi evidenziando il peso dei «wounded attachments» (l'attaccamento alle ferite subite) e del risentimento nella formazione della soggettività degli oppressi. Negli ultimi anni, la politica dell'identità ha assunto per un verso i caratteri estremi del fondamentalismo; per l'altro verso, rimane la base della domanda di riconoscimento e della rivendicazione di diritti per i gruppi svantaggiati. Il superamento della politica dell'identità è un tema centrale per una parte rilevante del pensiero politico italiano, in particolare per il femminismo della differenza, che lo lega alla critica della grammatica dei diritti. Nella sfera pubblica americana vedi soggettività e pratiche che vanno oltre la politica dell'identità? E nella scena mainstream, la competizione fra Hillary e Obama, la donna e il nero, va letta come il trionfo o come il punto limite della politica dell'identità?
Una cosa interessante della competizione Obama-Clinton è che fino a poco tempo fa nessuno dei due faceva ricorso alla politica dell'identità: puntavano entrambi sull'intenzione di intercettare elettorati diversi, unificare le divisioni della comunità nazionale, risanare la reputazione del paese all'estero. Non che rimuovessero l'importanza, per loro e per la nostra storia, del genere e della razza, stile Margaret Thatcher; ma non correvano esplicitamente come donna bianca e uomo nero. Sono stati entrambi letteralmente costretti in queste categorie dai discorsi che li interpellavano attraverso il genere e la razza, da elettorati (sessisti e femministi, razzisti e anti-razzisti) che battevano su questo tasto, da eventi (le lacrime di Hillary, il ministro troppo loquace di Obama) fatti su misura per definirli in questi termini. Questo dice qualcosa sulla presa della politica dell'identità negli Usa, ma anche sulla presa del sessismo e del razzismo: i due candidati, semplicemente, non possono evitare di essere ridotti alla fisiologia e al fenotipo.
Quanto alla tua domanda più generale, secondo me la coalizione queer dietro Act Up, che negli anni '90 ha lavorato sodo per portare la questione dell'Aids/Hiv nell'agenda politica ed economica, ha inaugurato una politica della giustizia post-identitaria. E oggi né i no-war, né i no-global né gli ambientalisti sono identitari. E' sperabile tuttavia che ciascuno di essi porti con sé consapevolezza delle questioni di genere, razza e sessualità - speranza solo a volte esaudita.
Malinconia e conservatorismo della sinistra, due capitoli del tuo lavoro di grande interesse per la sensibilità italiana. Schematizzando, dall'89 in poi in Italia la sinistra si è divisa fra un'area moderata, che ha abbracciato una «nuova» visione del mondo post-socialista e post-ideologica senza elaborare il lutto della sua identità perduta, e un'area radicale, che è rimasta attaccata alla sua identità senza elaborare il lutto per la fine dell'epoca in cui era cresciuta. In un'intervista su Contretemps (2006) hai detto che la sinistra deve imparare ad amare di nuovo, ad aprirsi a una nuova lettura del presente, ad accettare che il «noi» da cui è stata fatta possa diventare diverso da prima. Sono del tutto d'accordo. Nella sinistra americana ed europea di oggi, vedi dei nuovi oggetti d'amore, o una nuova apertura alle possibilità del presente?
Una risposta positiva e una preoccupata. In Europa, negli Usa e altrove, la rabbia contro l'imperialismo americano in Medioriente e la presa d'atto che un capitalismo senza briglie ci sta portando rapidamente verso un collasso planetario stanno dando alimento, a sinistra, alla ricerca - sia pure iniziale, nei fini e nei mezzi - di una diversa economia politica e di un diverso ordine mondiale. Penso che questa ricerca sia animata da quello che Hannah Arendt definiva «amore del mondo», e che questo amore stia riaffiorando a sinistra in forme nuove, dopo decenni.
Detto questo, negli Stati uniti di oggi il desiderio della sinistra di avere di nuovo qualcosa da amare, qualcosa in cui credere, sta emergendo in un modo sgradevole, che smentisce l'idea che la mobilitazione religiosa sia appannaggio della destra. Mi riferisco al folle entusiasmo per Obama di tanti compagni. Niente quanto il fenomeno Obama ha reso palpabile la disponibilità della sinistra al fervore religioso. Rispondere alla disperazione, alla rassegnazione, all'inerzia con la speranza, la possibilità, il cambiamento è la firma della sua campagna; ma il messaggio va oltre. Obama spinge a contrastare il cinismo con il credo, una forma di credo religioso tanto quanto quello contrabbandato dai cristiani evangelici. Il dono di Obama ai progressisti non è la fiducia in un progetto o in un percorso: è il credo in se stesso, il credo nel credo, un credo che solleva, ispira, ci risveglia e ci eccita dopo tanti anni senza credo, senza eccitazione, senza fiducia nel futuro. Obama è certamente un politico di grande talento, ma ciò che colpisce è quello che rivela di noi: quanto noi di sinistra desideriamo questo credo, questa rinnovata speranza, questa eccitazione di desiderio politico...anche se è senza contenuto né scopo, anzi proprio in quanto lo è.
Sotto questo aspetto, la somiglianza di Obama con John Kennedy non sta tanto nel fatto che anche lui è un leader giovane, bello, carismatico, con un'oratoria più di sinistra delle sue scelte effettive: sta nel fatto che in questo momento le doti e l'imprevista ascesa di Obama suscitano un sentimento di redenzione e di speranza nel futuro, proprio come avvenne per l'ascesa di Kennedy dopo gli anni bui di Hoover e McCarthy. Lo slogan di Obama «yes we can» è un sì contro i nostri dinieghi, il nostro inesorabile cinismo, la nostra rinuncia a credere in un futuro promettente, per l'America e per il mondo. L'avversario, il no, non è un nemico esterno, ma il no interno, la negazione del credo e della volontà. Ecco perché per Obama è stato facile respingere l'accusa di Hillary di generare «false speranze». La speranza che lui diffonde non è vera o falsa: è speranza in se stessa. L'attacco di Clinton è stato un boomerang, era come dire a persone rinate di tornare nell'oscurità in cui si erano perse, all'ennui, alla deriva, al nichilismo. Altro che Assault on Reason, il libro del 2007 sui Bush in cui Al Gore sosteneva che i Democratici avrebbero ripreso la Casa bianca perché sono più razionali, si attengono ai fatti, alla scienza e a norme motivate. Oggi la religione viene affrontata con la religione, e davvero l'America potrebbe andare verso un bizzarro tipo di guerra santa: la fede contro la fede, le nostre speranze contro le loro, il nostro Messia contro il loro. Ecco dunque il pericolo insito nell'invitare la sinistra a trovare un nuovo oggetto d'amore - l'amore può essere, e spesso è, illusorio e reazionario, specialmente in politica.
Ciò detto, e stante che tutta questa religiosità difficilmente farà il miracolo di portare alla Casa bianca un uomo nero, di vaga ascendenza musulmana e di secondo nome Hussein, io ho votato per Obama nelle primarie in California e lo voterei come Presidente.
Ti presenti come una pensatrice della democrazia radicale, sottolineando che il compito teorico e politico di oggi è «dissequestrare la democrazia dal liberismo e dal capitalismo». Di nuovo sono d'accordo, ma provo ad andare oltre. Negli ultimi anni, le democrazie occidentali hanno mostrato la loro faccia peggiore: guerre in nome della democrazia medesima, politiche di sorveglianza in nome della sicurezza, subalternità al mercato, corruzione delle classi dirigenti, populismo, crisi della rappresentanza, apatia e manipolabilità delle masse, rovesciamento, come dicono alcuni, del desiderio di libertà in una sorta di servitù volontaria. E' solo un «sequestro» neoliberista della democrazia, o si tratta di una deriva ineluttabile? Nel mondo unificato post-89, dove la democrazia ha trionfato come l'unico regime desiderabile e non è possibile alcuna nostalgia per l'alternativa del socialismo reale che fu, la democrazia è l'orizzonte esclusivo del nostro immaginario politico, o possiamo aprire il nostro desiderio di libertà ad altre possibilità?
E' una questione assai importante e complessa. Importante, perché se una cosa diventa un limite per la nostra immaginazione, si spenge anche dentro di essa. Complessa, perché oggi la parola «democrazia» spesso significa solo elezioni e mercato, ma al tempo stesso porta nella sua stessa etimologia - demos/kratos, popolo/governo - l'opposizione a tutti i poteri che governano l'esistenza umana e planetaria. E' un termine vuoto e degradato, e allo stesso tempo sovversivo e radicale. È il discorso legittimante del dominio e dell'imperialismo Usa, nonché della pretesa di supremazia della civiltà occidentale; è continuamente equiparata al libero mercato; eppure resta un, se non il, termine che ci consente di fare una critica radicale dell'ordine costituito. Mai nella storia le democrazie liberali sono state meno democratiche; il capitalismo è l'antitesi della democrazia; un governo fatto di esperti è antidemocratico; la razionalità politica neoliberista, con la sua enfasi sulla gerarchia e gli interessi personali e la sua antipatia per valori politici che non siano quelli del mercato, è inesorabilmente antidemocratica.
Ti dirò di più. Mi lascia perplessa il modo in cui la democrazia è stata abbracciata non solo dal mainstream ma anche dalla sinistra post-marxista europea e nord-americana. Da Balibar a Derrida, da Habermas a Rancière, la democrazia è diventata, come dici tu, esaustiva del politicamente possibile. Penso che qui non agisca solo una mancanza di immaginazione, ma anche qualcosa di un tantino reazionario: come se la democrazia rappresentasse l'Europa e la civiltà, anche per coloro che dovrebbero essere più avvertiti, contro il suo presunto nemico individuato in un immaginario Islam teocratico. Anche la «democrazia a venire» di Derrida, o la democrazia intesa come l'emergere di «quelli che non contano» secondo Rancière, continua a rimandare a una ragione pubblica laica, al parlamentarismo, al pluralismo, all'individuo moralmente autonomo associato all'Occidente, il cui esterno costitutivo è la teocrazia, l'ortodossia, l'organicismo sociale. Questa opposizione è falsa, xenofobica, auto-ingannatoria e pericolosa, ed è assai negativo che così tanti nella sinistra europea l'abbiano fatta propria.
Dunque sono diffidente, sia per il degrado della democrazia, sia per la sua idealizzazione a scopi reazionari. Tuttavia non sono pronta a buttare via né i valori che la democrazia liberale ha rappresentato (spesso ipocritamente), né il sogno più folle che questo termine serba dentro di sé. Non possiamo abbandonare una cosa solo perché il suo significato e il suo concreto dispiegarsi non sono nelle nostre mani: questa potrebbe essere la prima lezione della democrazia radicale.
(ha collaborato Marina Impallomeni)

L'immaginario nazionale imposto a viva forza

il manifesto 25.03.2008
«Sovranità, confini, vulnerabilità»: le due filosofe femministe americane ospiti giovedì 27 di una giornata di studio all'università Roma Tre
Butler: Quelli che gli Usa uccidono non sono veri «esseri viventi», sono minacce per la «vita» come noi la conosciamo
I. D.

«Sovranità, confini, vulnerabilità»: questo titolo suggerisce un nesso, se non un isomorfismo, fra la vicenda dello Stato e quella del soggetto. Le due nozioni dello Stato sovrano e del soggetto sovrano nascono assieme nel paradigma del Politico moderno. E' possibile oggi tracciare un parallelo fra la crisi della sovranità statuale e la crisi dell'individuo sovrano?
Penso sia possibile considerare certe forme della psicologia dell'io e della psicoanalisi kleiniana come capaci di registrare le tracce della sovranità politica presenti nella psiche. Che tipo di ego o di psiche è quello che ha cara la propria impermeabilità sopra ogni altra forma di connessione o interdipendenza? La mia sensazione è che il «confine» dell'io funzioni diversamente in presenza di determinate condizioni dello Stato nazione, specialmente quelle in cui si teme l'«invasione», in cui viene dato un grande valore all'«integrità interna», in cui si rifiuta la dipendenza e in particolar modo l'interdipendenza globale.
Per quanto fosse rintracciabile già in precedenza, la questione della vulnerabilità umana viene in primo piano nel tuo lavoro dopo l'11 settembre, assieme alla questione del lutto come pratica pubblica e dell'interdipendenza come antidoto alla politica della vendetta. Com'è stato influenzato il tuo pensiero dagli eventi dell'11 settembre?
Mi era chiaro che in risposta all'11 settembre il governo Usa, insieme a un sistema massmediatico di bassa lega, ha cercato di creare un soggetto nazionale pervasivamente maschilista, che si definisse come impermeabile, invulnerabile, perennemente aggressivo, e che rifiutasse i suoi legami internazionali. La questione attiene al modo in cui il soggetto nazionale risponde all'improvvisa presa di coscienza della sua vulnerabilità. Era la prima volta che gli Stati uniti venivano attaccati all'interno dei loro confini, dopo l'episodio di Pearl Harbor durante la seconda guerra mondiale. Gli Stati uniti avrebbero potuto sfruttare questa opportunità per riconoscere la propria vulnerabilità, e anche per riconoscere che questa vulnerabilità è generalizzabile - cosa che avrebbe potenziato gli accordi internazionali e transnazionali miranti a ridurre al minimo il rischio di violenza. Ma la loro strategia è consistita invece nel rimuoverla.
Questa versione del soggetto nazionale (una sorta di immaginario della nazione imposto a viva forza) è stata creata regolando il modo in cui intendiamo la morte o reagiamo ad essa. La morte delle vittime del World Trade Center non è stata considerata solo un fatto gravissimo, ma è stata innalzata ad uno status di straordinarietà, di sacralità. D'altro canto ci è stato impedito - e ci viene impedito tuttora - di vedere i morti di guerra. Ciò significa che la regolazione del campo visivo in cui è possibile incontrare la morte resta cruciale per la guerra e per il nazionalismo su cui essa poggia. Certe vite sono degne di lutto, altre no, e questo serve a giustificare la violenza che infliggiamo e a rimuovere qualunque concezione della nostra precarietà. Quelli che gli Usa uccidono non sono dei veri «esseri viventi», sono popolazioni che minacciano la «vita» così come noi la conosciamo. Questo è una pericolosa schisi che incide sulla cultura della guerra.
L'idea della vulnerabilità e dell'interdipendenza come base di una politica non violenta implica un rovesciamento del paradigma politico moderno basato sulla forza e sulla logica amico-nemico. In Critica della violenza etica definisci la vulnerabilità e l'interdipendenza in una prospettiva etica. Ma etica e politica, come sappiamo, per quanto siano connesse non coincidono. Sul fronte della politica istituzionale, dopo l'11 settembre la logica della forza e della violenza, della difesa della sovranità nazionale e della vendetta ha di nuovo prevalso. Può un'etica della vulnerabilità e dell'interdipendenza farsi strada in pratiche sociali e politiche capaci di disturbare questa sorta di coazione a ripetere del Politico? Nel femminismo italiano, ad esempio, concepiamo la relazione fra donne come una forma sociale e pratica politica che mette in atto l'interdipendenza, contro il paradigma dominante dell'autonomia e della sovranità.
Mi piace molto questa idea della relazione tra donne come forma sociale che mette in atto l'interdipendenza. La mia sensazione è che certi principi etici appaiano con evidenza ed entrino in gioco solo in virtù di situazioni politiche. Così per me non c'è etica al di fuori della pratica sociale e del terreno del potere. Mi sembra che qualunque decisione di mettere in atto la violenza, o di rifiutarla, abbia una dimensione etica, in quanto attiene alla condotta e al modo in cui giustifichiamo la relazione - qualunque relazione - che stabiliamo con la violenza. Ma non saremmo in situazioni di questo tipo se non fosse per l'esistenza dell'aggressione politica e, più specificamente, di forme sociali di aggressione. Il movimento di autodifesa femminista è al contempo una pratica etica e politica. Non sarebbe necessario, se non fosse per la violenza contro le donne. E tuttavia incarna principi etici in forme sociali.
Un tema cardinale del tuo lavoro, secondo me, è la tua interpretazione della dinamica del ricoscimento come processo che non conferma l'identità di chi vi è implicato, ma la destabilizza e la trasforma. Ma il riconoscimento dipende anche, tu sostieni, dalle norme e dallo Stato, che tendono viceversa a fissare, normalizzare e gerarchizzare le nostre identità. Se e fino a che punto affidare, o viceversa sottrarre, il riconoscimento collettivo alla legge, ai diritti e allo Stato, è una questione assai dibattuta nei movimenti politici, anche qui in Italia, dove si è ripresentata di recente a proposito delle convivenze e dei matrimoni gay. Tu che ne pensi?
A mio parere dobbiamo elaborare una nozione di «riconoscimento critico», ossia una pratica che consiste nel cercare riconoscimento nei termini delle norme esistenti (ad esempio, ampliare le norme per l'uguaglianza e la giustizia), ma anche nell'interrogare e mettere in discussione la portata e il carattere di queste norme. Se ci limitiamo a cercare il riconoscimento, resteremo legati alle norme esistenti. Ma se ci sta a cuore chi non riesce a ottenere riconoscimento dalle norme esistenti, o dal loro ampliamento, dobbiamo elaborare nuove forme sociali, ed anche nuove norme. Questo vuol dire interrogare i limiti del riconoscibile e formulare una politica precisamente su questo punto.
Un altro tema importante del tuo lavoro, nella mia prospettiva, riguarda il cambiamento dell'ordine simbolico, questione capitale anche nel pensiero della differenza sessuale italiano. Personalmente leggo la tua teoria della performatività, in Scambi di genere e in Excitable Speech, come una ricerca di pratiche di risignificazione che possono appunto modificare l'ordine simbolico. Altrove però (La rivendicazione di Antigone, La disfatta del genere) sembri delineare un cambiamento dell'ordine simbolico (segnatamente della struttura dell'Edipo) che procede direttamente dal cambiamento sociale (segnatamente dalle nuove tipologie familiari post-nucleari). Che rapporto c'è secondo te fra ordine sociale e ordine simbolico e fra la trasformazione dell'uno e dell'altro, e quali pratiche pensi che possano innescare un circolo fra loro?
A mio modo di vedere, è un errore interpretare l'apparente intrattabilità di certi nuovi rapporti di parentela come il segno di un ordine simbolico che perdura immutato. Ciò che chiamiamo «simbolico» è quella struttura del rapporto di parentela che appare difficile, se non impossibile, da cambiare. Chi difende il simbolico come un ordine dato e immodificabile è molto spesso costretto a patologizzare i rapporti di parentela che non si conformano alla sua legge. Di conseguenza, devono decidere costantemente che cos'è «veramente femminile» o «veramente intelligibile», producendo così un terreno di esclusione per una politica innovativa della sessualità e della parentela. Questa logica dimostra che c'è sempre un «fuori» dal simbolico: un terreno che è anche «vivibile», pur essendo costantemente allestito come «invivibile». Penso che sia possibile, ad esempio, pensare l'Edipo fuori dalla famiglia eterosessuale, ripensare la parentela stessa fuori dalle strutture familiari, e liberare la sessualità dal suo strangolamento nell'identità.
La psicoanalisi gioca un ruolo cruciale nel tuo pensiero politico. Per parte mia, anch'io penso che oggi sia impossible ripensare l'ontologia politica senza uno sguardo psicoanalitico. Tuttavia il rapporto fra il livello psichico, sociale e politico della nostra vita è complesso. Fino a che punto pensi che la psicoanalisi ci sia d'aiuto nel riformulare la teoria e soprattutto la pratica politica?
Penso che sia particolarmente importante, nella politica contemporanea, rintracciare le strategie di rimozione, considerare come il passato continui nel presente, anche come presente. Non so se possiamo riuscire a capire quello che succede in Medioriente senza un senso specificamente politico del trauma. E non so se possiamo riuscire a capire il razzismo, la misoginia, l'omofobia, la xenofobia senza considerare l'ansia e la paura che accompagnano le relazioni di prossimità con gli altri. Noi negoziamo costantemente i confini che ci separano dagli altri o che ci connettono con loro, e ciò dimostra come certi problemi psicoanalitici, concepiti socialmente, informino la politica contemporanea sull'immigrazione (che riguarda sempre il confine: chi può attraversarlo, e a quale prezzo per il sé?) e sulla guerra (chi può irrompere attraverso un confine, e a quale costo?). Non credo che estrapolare un modello individuale della psiche per pensare le relazioni politiche funzioni: la cosa che mi pare più promettente è considerare con quanta frequenza le relazioni politiche siano formulate in termini di ansia, paura, difesa, vendetta, aggressione, ma anche, e viceversa, di riparazione e relazionalità.

(Ha collaborato Marina Impallomeni)