venerdì 26 settembre 2008

Morales e i nemici si parlano, mentre i contadini assediano Santa Cruz

Bolivia, parte un dialogo in salita
Si tratta su gas, latifondo, costituzione

Angela Nocioni
Rio de Janeiro
Con la pressione degli altri Paesi latinoamericani, e con la regia diplomatica del vicino Brasile, ieri a Cochabamba è iniziata la trattativa tra il primo governo indigeno della Bolivia e i governatori dei dipartimenti dell'Oriente, l'arma politica dell'estrema destra locale.
Sarà, per volere del governo, un dialogo a tappe forzate. «Si esce di qui solo con l'accordo fatto» dice il presidente. Ma è una trattativa difficilissima. Non esistono margini: vanno inventati.
L'opposizione al governo del Mas è apertamente razzista, filonazista. Lo rivendica, i suoi leaders si definiscono tali a microfono spento. Non sopporta l'idea di essere governata da indigeni. Questo innanzitutto. Le questioni del gas e della terra, importanti, vengono dopo.
Prima della nazionalizzazione dei giacimenti i profitti degli idrocarburi restavano sostanzialmente in mano dei governatori locali (l'Oriente è la parte più ricca di giacimenti). Ora, dopo la nazionalizzazione decisa da Morales, vanno a la Paz che li usa per finanziare una serie di politiche sociali, soprattutto le ridistribuisce sotto forma di bonus economici per vecchi poveri. L'Oriente vuole riprendersi quei soldi. Il governo non può cedere su questo punto senza essere travolto da sinistra. E la sinistra è per Morales cruciale, più della destra. I movimenti sociali, consapevoli del ruolo che hanno in questa fase storica in Bolivia, trattano ogni centesimo e minacciano fuoco e fiamme se non ottengono quanto chiedono.
La questione della terra, delicatissima, è forse il punto in cui con minori difficoltà si può imbastire una trattativa. Quanto dev'essere estesa una proprietà terriera (improduttiva) per essere considerata latifondo? Diecimila ettari, come chiede la destra, o cinquemila, come chiede la maggior parte dei movimenti sociali? Su questo punto si può forse riuscire a trattare. La nuova Costituzione, che l'opposizione considera pericolosamente statalista e troppo indigenista mentre il governo la ritiene necessaria per ridisegnare le istituzioni di un Paese dove fino a due anni fa vigeva un apartheid di fatto, deve ancora essere ratificata e quindi c'è spazio per emendamenti.
Ma il cammino è pieno di insidie. I nemici di Morales hanno tutto l'interesse a far saltare la mediazione. A loro, ricchissimi padroni delle terre d'Oriente in cui controllano tutto (dall'ultimo municipio a tutte le false cooperative dei servizi, passando per ogni singolo segmento dell'economia locale) conviene sedersi al tavolo per gridare che trattare con un governo socialista non si può. Scuse per interrompere il dialogo non ne mancano. Possono dire che non tollerano lo stato d'assedio decretato nel dipartimento di Pando, regione dell'opposizione in cui c'è stata la settimana scorsa una imboscata a sostenitori di Morales: 30 morti. Possono chiedere la liberazione del governatore Leopoldo Fernández, accusato dal governo di essere il mandante del massacro e al momento detenuto in una località segreta. Possono dire di non poter sopportare l'assedio a Santa Cruz che gruppi che contestano Morales ‘da sinistra' hanno messo in piedi chiedendo «l'immediata rinuncia del prefetto fascista Ruben Costa». Ruben Costa è stato confermato al suo posto un mese fa con percentuali altissime in un referendum revocatorio, la maggior parte dei cruzenos (piaccia o no) lo vota e lui non ha nessuna intenzione di andarsene.
L'accesso a Santa Cruz ieri sera era ancora bloccata da organizzazione contadine decise a far dimettere il prefetto ad ogni costo. «Non ce ne andiamo nemmeno se ce lo chiede Morales» dicono quelli che occupano un ponte strategico, 15 kilometri al nord della città.

19/09/2008 liberazione

L'autopsia rivela diverse ferite sul corpo

«Siamo tutti Abba»
Corteo a Milano in ricordo di Abdoul

È la Milano che reagisce, che non ci sta a veder morire ammazzato un ragazzo di 19 anni. Una Milano che non ha nessuna intenzione di nascondersi dietro il "litigio per futili motivi" e che vuol scoperchiare il pentolone razzista che ribolle tra le pieghe nascoste delle metropoli del belPaese.
Ed è per questo che ieri, centinaia di ragazzi, per lo più studenti, hanno sfilato per le vie del capoluogo lombardo. Una manifestazione nata per ricordare Abdoul Guiebrè, il ragazzo ucciso a sprangate la notte del 14 settembre scorso. «Siamo tutti Abba», c'era scritto su uno degli striscioni che aprivano il corteo. E ancora: «Contro razzismo e paure e pacchetti sicurezza, fermiamo le politiche dell'ignoranza».
Il corteo, al quale hanno partecipato anche la sorella e gli amici del ragazzo e che è stato organizzato dal Coordinamento dei Collettivi Studenteschi, è partito alle 9.30 da largo Cairoli, dove alcuni writer hanno lasciato sulla strada una lunga scritta che recita «Abba vive». Cantando in coro «Abba è uno di noi», il corteo si è poi diretto verso via Zuretti, nei pressi della stazione, dove è avvenuto l'omicidio. Molti indossavano magliette con la foto di Abba e la scritta «Addio fratello».
A quel punto, una volta arrivati nei pressi del bar Shining, proprietà dei due indagati per l'omicidio, una secchiata di vernice bianca ha inondato la saracinesca. Immediato l'intervento dei Carabinieri che, in tenuta antisommossa, si sono piazzati davanti al bar. Tutto inutile, il corteo è rimasto composto ad osservare il minuto di silenzio in ricordo di Abdoul. Poi, il fratello e la sorella del ragazzo ucciso, hanno ringraziato i ragazzi rinnovando l'appuntamento alla manifestazione prevista per sabato alle 14.30, con partenza da Porta Venezia.
I familiari e gli amici di Abdoul, intanto, hanno lanciato un appello «affinché le persone che hanno visto, che dalle finestre hanno scattato fotografie col cellulare o girato dei filmati, parlino e aiutino le indagini». Nell'istituto di Medicina Legale di Milano si è svolta l'autopsia sul corpo di Abdul Guiebre. Per il suo omicidio sono in carcere due baristi: davanti al Pm e al Gip, Fausto e Daniele Cristofoli (51 e 31 anni), padre e figlio, si sono difesi sostenendo che Guiebre è stato raggiunto da un solo colpo di spranga alla testa, nel tentativo di Daniele di difendere il padre Fausto.
Secondo i patologi il ragazzo sarebbe morto a causa di un colpo alla testa, ma ci sarebbero anche altre ferite sul corpo. Nessun dubbio che il colpo sferrato con la spranga, che teneva aperto il portellone del chiosco-bar dei Cristofoli, sia stato fatale. Resta, però, da stabilire il numero e l'entità dei colpi subiti dalla vittima. Saranno necessari ulteriori accertamenti, disposti probabilmente con una perizia collegiale, a stabilire se sono stati vibrati più colpi con la spranga e con il bastone metallico, le armi sequestrate dalla polizia in via Zuretti, luogo dell'omicidio.
Per quanto riguarda le reazioni al corteo della mattinata merita menzione quella del capodelegazione della Lega Nord in giunta regionale lombarda, Davide Boni: «I disordini avvenuti durante il corteo organizzato dagli studenti sono l'esempio lampante di come l'odio fomentato dall'estrema sinistra contro un movimento politico e contro degli onesti amministratori, possa influenzare negativamente la parte più giovane della nostra società. Scendere in piazza, strumentalizzando un tragico fatto di cronaca e paventando un allarme "razzismo" inesistente, è solo un metodo per alimentare una tensione sociale d'altri tempi». «Non è tirando bottiglie e barattoli di vernice - ha aggiunto Boni - che si commemora un ragazzo diciannovenne ucciso».

19/09/2008 liberazione

mercoledì 24 settembre 2008

L'altra Europa possibile nella tempesta della crisif

A SUD DEL NORD
il manifesto 19/09/2008
Il movimento altermondista riunito nella città più a sud della Svezia per dare nuovo slancio alle proprie iniziative. Minore l'attenzione mediatica ma numerose le delegazioni da Turchia, Russia ed Est europeo. Il Forum sociale europeo, in tono minore rispetto al passato, riflette a Malmo sulle ragioni dell'alternativa mai così attuale e necessaria
Giovanna Ferrara
Carlo M. Miele
MALMO

L'altra Europa possibile è riunita in questi giorni a Malmo, convocata dal Forum sociale europeo (Esf), che ha scelto la città più a sud della Svezia proprio per dare il senso di un maggiore coinvolgimento dei paesi del Nord e di quelli dell'Est. Ma, a dispetto dell'intento, qui il Forum sembra aver perso vigore rispetto alle precedenti edizioni. Solo un migliaio di persone si sono radunate mercoledì sera sotto il palco del Folkets Park, nel centro della città, per ascoltare gli interventi che hanno dato il via al Forum. Si parla dell'altra Europa possibile ma anche di un contesto mondiale che la stessa Europa non può ignorare. Al centro degli interventi c'è la recente crisi finanziaria degli Stati Uniti e le conseguenze che ne verranno. Un'ultima burrasca che - a detta degli ospiti dell'Esf - dimostra che sbagliano quanti affermano che l'agenda e le proposte del Forum Sociale sono superate. «Il crollo della Lehman Brothers - dice dal palco l'attivista indiana Vandana Shiva - dimostra che è giunto il tempo di reclamare una vera ricostruzione delle nostre economie. È giunto il momento di reclamare la divisione della ricchezza in modo più equo» e aggiunge «l'agenda, i discorsi e le azioni del Forum Sociale» sono «di attualità come mai prima». Su questo punto concordano un po' tutti gli esponenti del movimento altermondista. Anche Petter Larsson del Nordic Organizing Committee (Noc) cita l'ultima crisi finanziaria negli Stati Uniti per spiegare che «le cose stanno cambiando, le nostre questioni politiche ed economiche stanno tornando di attualità». «La cosiddetta 'guerra al terrorismo' - afferma nel media center allestito dall'Esf - è riuscita a spazzare dall'agenda molte delle principali questioni che questo movimento tenta di portare avanti, in materia di giustizia, di economia, ma penso che adesso i movimenti abbiano una grande opportunità per riaffacciarsi sulla scena mondiale». Il declino del Forum Sociale tuttavia è innegabile. A un primo sguardo a Malmo è difficile anche accorgersi della presenza del Forum. Nella città ex-industriale del sud della Svezia, tuttora in cerca di una nuova identità, la maggior parte delle attività e dei seminari, così come gran parte dei campeggi e delle strutture allestite per i partecipanti, sono relegate lontano dal centro. Nessun manifesto pubblicizza l'evento e appuntamenti e seminari sono dislocati in aree lontane tra loro e non facilmente raggiungibili. E pure la partecipazione di attivisti e di «pubblico» non sembra paragonabile a quella delle quattro precedenti edizioni. Vandana Shiva nel corso della conferenza stampa organizzata all'indomani dell'inaugurazione, si dice «completamente d'accordo sul fatto che l'Esf ha subito un rallentamento», ma spiega che ciò è avvenuto solo a causa di un errore di metodo, cioè per il fatto che «i nostri movimenti sociali sono focalizzati su dei problemi che oramai devono essere integrati, in quanto sono connessi gli uni agli altri». Per questa ragione - precisa - «l'indebolimento del movimento costituisce una pausa, un segnale di riflessione». Gli organizzatori ammettono che gran parte delle 20 mila persone attese arriverà dalla stessa Scandinavia e dalle regioni limitrofe, ma si difendono sostenendo che molti altri arriveranno nel fine settimana e in occasione della Street Parade di sabato. Larsson del Noc non ci sta a parlare di «crisi» del Forum. «Penso che sia giusto parlare di minore attenzione solo se con questo intendiamo minore attenzione mediatica, ma questo è dovuto soprattutto al fatto che il Social Forum non rappresenta più una novità». E a prova delle sue affermazioni cita il numero consistente di delegazioni arrivate dalla Turchia, dalla Russia e dall'Est europeo, «un fenomeno senza precedenti nelle passate edizioni», frutto anche dell'impegno degli stessi organizzatori, che si sono attivati per contattare le organizzazione e per pubblicizzare l'evento in quei paesi, arrivando anche a creare un «fondo solidale» per favorire la trasferta nel sud della Svezia. Moltissimi, forse troppi i seminari sui temi più disparati, che invece di essere approfondimento diventano frammentazione. Di buono c'è che vengono accorpate questioni prima trattate singolarmente. Il tema della migrazione finisce con l'essere connesso a quello degli accordi commerciali, rei di creare maggiore povertà proprio nei paesi in via di sviluppo. I seminari sul femminismo accompagnano i temi sulla precarietà, con il merito di dare un orizzonte più complesso alle questioni. Troppo poco è lasciato invece alla fase dell'iniziativa. A parte gli appuntamenti di sabato (Street Parade) e di domenica mattina (assemblea conclusiva) il Forum di Malmo sembra non avere un'ossatura programmatica. «Per rilanciare il Forum - sottolinea Vittorio Agnoletto, eurodeputato Prc - occorre progettare vertenze e poi, a distanza di tempo, procedere a una verifica delle stesse». In questo senso, si potrebbe guardare alla nuova formula adottata dal World Social Forum, che a una prima fase di discussione adesso ne fa seguire un'altra in cui si procede a proposte programmatiche concrete, su cui impegnarsi. I temi non mancano: «Sull'immigrazione - aggiunge Agnoletto occorre trovare un efficace metodo per boicottare la 'direttiva della vergogna' sui rimpatri. Sul lavoro bisogna lottare a fianco delle forze sindacali contro il provvedimento comunitario sull'orario, in nome del quale si arriverebbe a demolire la disciplina dei contratti collettivi e il ruolo dei sindacati. E poi è prioritario organizzarsi per testimoniare l'impegno del forum contro il G8 alla Maddalena nel 2009». Oltre alle organizzazioni arrivate dall'Est Europa, la manifestazione di Malmo è caratterizzata soprattutto dalla presenza dei paesi scandinavi. Da sottolineare l'intento degli organizzatori di «utilizzare» il Forum per sdoganare in Svezia la cattiva aurea che, da sempre, qui accompagna l'idea di un'Europa unita. «Non si può ignorare - dice Sara Andersson del Nocche molte delle decisioni che influenzano la vita dei cittadini vengono prese a Bruxelles e quindi speriamo che la manifestazione riesca anche a cambiare la percezione degli svedesi rispetto alla possibilità di costruire un'Europa che non sia solo dei governi, ma anche dei cittadini». Si tratta, sotto questo profilo, della prima iniziativa volta a influenzare la campagna elettorale per le elezioni per il Parlamento europeo del 2009, che avverranno in primavera proprio mentre toccherà alla Svezia, dopo il semestre ceco, guidare l'Unione europea. «Pur difendendo l'autonomia del movimento dalle istituzioni - continua Agnoletto - non è però più possibile ignorare l'agenda politica dell'Ue». Il concetto è che, al di là di tutto, la validità del Social Forum resta. «Anche se non può essere l'unica occasione di incontro - dice Larsson - ritengo resti comunque importante per i movimenti ritrovarsi in un unico posto fisico, confrontarsi, parlare di strategie e cooperare».

martedì 23 settembre 2008

Il neofascita italiano Diodato fra i registi della strage di Pando

BOLIVIA
il manifesto 19/09/2008

Nelle indagini condotte per far luce sul massacro di 15 contadini indigeni, avvenuto l'11 settembre scorso nel dipartimento di Pando, emerge la pista neofascita italiana. L'ex parà cinquantenne originario dell'Abruzzo, Marco Marino Diodato, sarebbe secondo Michel Irusta, ex parlamentare e giornalista boliviano, legato al prefetto di Pando, Leopoldo Fernandez, in questo momento agli arresti per aver violato lo stato d'assedio imposto nel dipartimento, e con lui e altri in combutta nel finanziare gli squadroni responsabili del massacro dell'11 settembre. Dello stesso avviso il giornalista Wilson Garcia Merida secondo cui, Diodato avrebbe operato recentemente nei dipartimenti «ribelli» della Mezzaluna (Santa Cruz, Beni, Pando e Tarija) «organizzando gruppi di killer». Il neofascista, trasferitosi in Bolivia alla fine degli anni '70, in passato ha lavorato per il dittatore Hugo Banzer, di cui sposò la nipote, e Luis Garcia Meza. Accusato di gestire un clan di narcos è stato condannato a 10 anni e dal 2004, dopo un'evasione, è latitante.

Anche l'autopsia conferma: Abba colpito più volte

UCCISO A SPRANGATE
il manifesto 19/09/2008
Alessandro Braga
MILANO

«Chi ha visto qualcosa quella mattina, chi dalle finestre delle case ha scattato fotografie col cellulare o girato filmati parli, vada a testimoniare per far venire alla luce la verità su quanto è accaduto». I genitori di Abdul Guibre, il ragazzo italo-africano ucciso a sprangate domenica scorsa, ieri hanno ribadito la loro richiesta per far sì che eventuali testimoni si facciano avanti per chiarire la dinamica di quanto successo. Proprio nel giorno in cui nell'istituto di medicina legale di Milano è stata effettuata l'autopsia sul corpo del figlio. Dai primi dati resi noti emerge che sul corpo del ragazzo ci sono i segni di più ferite oltre a quella mortale. Anche i familiari di Abdul, che ieri hanno visto il corpo del figlio per il riconoscimento, dice Mirco Mazzali, l'avvocato che segue la famiglia, «hanno notato i segni di diverse ferite sul corpo del figlio: oltre al colpo alla nuca, un braccio rotto e diversi lividi sulle gambe». Dati che smontano la tesi difensiva degli aggressori, Daniele e Fausto Cristofoli, in carcere dal pomeriggio di domenica con l'accusa di omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Due giorni fa il giudice per le indagini preliminari di Milano Micaela Curami ha confermato lo stato di fermo e la custodia cautelare in carcere per i due, motivando la sua scelta con la possibilità di reiterazione del reato, pericolo di fuga e inquinamento delle prove. Il figlio, Daniele, sostiene di aver sferrato «un solo colpo alla cieca» per difendere il padre Fausto accerchiato da due/tre ragazzi. Ma, l'autopsia ieri, le testimonianze degli amici di Abba presenti quella mattina e i primi filmati al vaglio degli inquirenti, vanno in direzione opposta, e parlano di «accanimento sul ragazzo». Ieri sono continuate le iniziative di solidarietà a «Abba» e alla famiglia, dopo i primi presidi di lunedì e il murales realizzato dai suoi amici due giorni fa nel parco giochi davanti alla casa dove Abdul viveva a Cernusco sul Naviglio, cittadina alle porte di Milano: in mattinata i collettivi studenteschi hanno sfilato per le vie del centro cittadino, molti indossavano magliette con stampato il viso del ragazzo ucciso e la scritta «Addio fratello». Sull'asfalto sono comparse anche scritte contro il razzismo. Intanto cresce sempre più il numero delle adesioni per la manifestazione antirazzista che si terrà domani lanciata da Moni Ovadia, don Gino Rigoldi, Renato Sarti e Nico Colonna. Ai primi firmatari si sono aggiunti i nomi di Dario Fo e Franca Rame, del fondatore di Emergency Gino Strada e dei vari partiti di sinistra, centri sociali e associazioni di volontariato. Tra gli assenti, il Partito democratico, lombardo e nazionale, che dopo un primo presidio fatto lunedì in piazza San Babila, ha taciuto. E Sinistra democratica: nonostante l'adesione all'appello di singoli consiglieri provinciali ieri la coordinatrice milanese Chiara Cremonesi ha sentito il bisogno di precisare che sarà in piazza ma «per portare pubblicamente un contributo diverso da quello indicato nella convocazione». L'appuntamento è per le 14,30 ai bastioni di porta Venezia, per un corteo che si concluderà in piazza Duomo. La «parola d'ordine», «Per Abba, perché non succeda più».

«È molto importante che non ci facciate sentire soli»

INTERVISTA
il manifesto 19/09/2008
Parla Adia Guibré, sorella del ragazzo assassinato a Milano
Giorgio Salvetti
MILANO

È difficile parlare con Adia, sorella di Abdul Guibré. Non solo perché suo fratello è stato ammazzato a sprangate, ma perché sulla pelle di quel ragazzo e della sua famiglia si è scatenata la bagarre mediatica e politica. «Nessuno mi può ridare mio fratello. Parlo solo perché quello che è successo a lui non deve più succedere a nessuno, a nessun bianco e a nessun nero».
Cosa credi sia successo davvero domenica mattina all'alba?
Mio fratello è stato ucciso barbaramente. È strano che nessuno abbia visto, lancio un appello perché chiunque porti una testimonianza, anche anonima. Non bisogna avere paura, perché purtroppo la stessa cosa può capitare a tutti.
Credi che sarebbe andata diversamente se Abdul non fosse stato nero?
Anche se fosse stato bianco, non è possibile che un ragazzo di 19 anni venga ammazzato in quel modo senza nessun motivo. Ma ad Abdul hanno gridato 'negro di merda'. La moglie di quei baristi il giorno dopo ha dichiarato di essere razzista al 100%. Come può non c'entrare il colore della pelle? È una cosa che mi ha fatto molto male. Poi quella signora ha chiesto la nostra comprensione... Che cosa le posso rispondere? C'è gente che si sposta sulle panchine o ci guarda male in metropolitana, o che ci insulta perché siamo neri. Finché sono parole si può anche far finta di niente. Ma negli ultimi anni tutto è peggiorato eppure io stessa non me ne sono resa conto, fino all'altro giorno, fino a quando non è stata colpita la mia famiglia. L'Italia è un bellissimo paese ma ci sono persone che per ignoranza diventano violente. Per fortuna non tutti. Noi siamo italiani e anche ora riusciamo a essere orgogliosi di essere italiani perché tanti di voi ci stanno vicino e ci danno la forza di sentirci concittadini. Mio fratello aveva tanti amici che ci vengono a trovare a casa. Era un ragazzo buono e amato dalla gente. I ragazzi, tutti, bianchi e neri, hanno il diritto di andare a divertirsi senza rischiare di essere ammazzati come è successo a lui.
Di chi è la responsabilità dell'ignoranza di cui parli?
La politica troppo spesso aumenta questa ignoranza teorizzando che gli stranieri devono tornarsene nel loro paese. Ma questo è il mio paese. È il paese di tanti neri come me. Molti stranieri lavorano in fabbrica, in fonderia o badano agli anziani, magari curano le vostre madri e i vostri padri. Anche io ho fatto un corso per assistenza agli anziani. Ci sono ragazzi neri che hanno studiato, sono laureati, parlano perfettamente italiano. Quando mandano il curriculum li vorrebbero assumere, ma poi quando scoprono che sono neri, nessuno li vuole. È ipocrita usare il lavoro degli stranieri ma volere che non si vedano per le strade. L'Italia è un paese con l'età media molto alta, senza gli stranieri non potrebbe andare avanti: noi siamo il vostro braccio destro. Proprio come lo siete stati voi in America o in tutti quei paesi dove siete emigrati. Non è pensabile che gli stranieri se ne vadano. Mio padre lavora da 22 anni a Cernusco sul Naviglio, nella stessa fabbrica, siamo una famiglia rispettabile, tanto che ci avete riconosciuto la cittadinanza. I miei figli crescono in questo paese.
Domani tanti cittadini milanesi manifesteranno per tuo fratello, che ne pensi?
Hanno detto che la famiglia non voleva che la politica si occupasse della vicenda. Ci hanno fatto dire tante cose. Anche per questo sto valutando se sia opportuno andarci, ma sono contenta che le persone manifestino per Abdul e li ringrazio. È giusto che lo facciano. Sono persone intelligenti. La solidarietà che ci è stata data in questi giorni è molto importante. Sono queste persone che mi danno coraggio, altrimenti in questo momento non riuscirei neppure ad alzarmi in piedi.

lunedì 22 settembre 2008

Negro di merda? «Generica antipatia»

RAZZISMO
il manifesto 19/09/2008
Alessandro Portelli

Hanno proprio ragione i magistrati e i politici milanesi secondo cui massacrare una persona chiamandolo «negro di merda» non è un atto di razzismo. Infatti hanno dalla loro la più autorevole giurisprudenza del nostro paese: un paio di anni or sono, la Corte di Cassazione sentenziò, infatti, che «l'espressione 'sporco negro'» - pronunciata da un italiano mentre aggredisce persone di colore alle quali provoca serie lesioni - non denota, di per sé, l'intento discriminatorio e razzista di chi la pronuncia perché potrebbe anche essere una manifestazione di 'generica antipatia, insofferenza o rifiuto' per chi appartiene a una razza diversa».
Immagino che la suddetta preclara giurisprudenza possa applicarsi anche a espressioni affini come «negro di merda». Quindi, «nessuna aggravante». In effetti, i due assassini di Milano hanno fatto sapere che avrebbero fatto lo stesso anche se il loro bersaglio fosse stato bianco e questo, secondo loro, dovrebbe rassicurarci (mi viene in mente la signora con bambina che allo stadio faceva «buuu» ai giocatori di colore e, alle mie rimostranze, rispose che lo faceva pure ai bianchi. Come se una schifezza ne scusasse un'altra). Ma loro almeno lo fanno per proteggersi - e comunque, per fortuna, manca la conferma empirica. Quelli che davvero non hanno vergogna sono quelli che nelle istituzioni e nei media gli tengono bordone. Io infatti ero convinto che «generica antipatia, insofferenza o rifiuto per chi appartiene a una razza diversa» fosse appunto una perfetta definizione del razzismo: un atteggiamento mentale e culturale, che può o meno produrre altri effetti criminosi ma è già un orrore in sé. Per aver definito «negro di merda» un giocatore avversario, il commissario tecnico della nazionale spagnola si beccò una meritata bufera di accuse di razzismo. Si vede che certe espressioni smettono di essere razziste quando alle parole si accompagnano le mazzate. La strategia discorsiva è la stessa seguita dal tribunale californiano nel caso Rodney King (quello che scatenò la rivolta di Los Angeles): suddividere un evento unitario in frammenti distinti in modo da separarne causa ed effetto e renderlo incomprensibile. In questo caso, le botte e le parole non fanno più parte di un medesimo processo, ma sono due cose separate e senza relazione fra loro: non danno le botte perché la vittima è comunque ai loro occhi uno «sporco negro», ma da una parte hanno verso di lui una «generica antipatia» e dall'altra lo ammazzano, però l'una cosa con l'altra non c'entra. Se vogliamo, su tragica piccola scala, questa è la logica che presiede la separazione fra le leggi razziali e il fascismo rivendicata dal sindaco di Roma e dai suoi seguaci: il regime cacciava i bambini dalle scuole e aiutava i nazisti a sterminarli, ma non perché era fascista e quindi razzista, ma per una mera aberrazione. Staccato dalle sue conseguenze materiali, insomma, il razzismo diventa una cosa nebulosa e astratta, che uno può negare e persino condannare, continuando a praticarlo. Questa mi pare anche la debolezza dell'«antifascismo» dichiarato da Fini: se davvero ci riconosciamo nei valori della Resistenza e della Costituzione, allora sarà il caso di metterli in pratica, e di smettere di discriminare e schedare i rom, cacciare gli immigrati, considerare aggravante la clandestinità, praticare politiche che colpiscono sistematicamente i più deboli e più marginali. Cioè: ricomponiamo parole e fatti, ricomponiamo i proclami di antirazzismo con pratiche antirazziste, egualitarie, civili - il contrario di quelle per le quali la commissione europea ha appena ribadito la condanna al nostro governo (contro quello che avevano proclamato Maroni e i tg). Invece facciamo esattamente il contrario: separiamo le parole dai fatti che ne conseguono, e ci serviamo di questa scissione per attenuare la gravità di un assassinio, o per prendersi patenti di democraticità senza bisogno di fare una politica democratica. La parola chiave del razzismo nostrano è «ma»: «io non sono razzista ma...». Io non sono razzista, ma quelli i biscotti li avevano presi. Io non sono razzista, ma i rom rubano. Il documento degli «scienziati» fascisti sulla razza, almeno, proclamava che era l'ora che gli italiani si proclamassero «francamente» razzisti. Adesso, noi italiani brava gente ci vergogniamo del nostro razzismo al punto da negarlo in faccia all'evidenza - e proprio questa negazione ci permette di continuare a praticarlo in forme sempre più violente.

Feroci accattoni e pidocchi

CANTIERI SOCIALI
il manifesto 18/09/2008
Pierluigi Sullo

In una delle tante mailing list cui sono iscritto è arrivato un messaggio utile. Un corrispondente della lista di Transform Italia, che si firma polemicamente «Accattone», nota che «oggi, 16 settembre, a ben undici giorni di distanza dall'accadimento, è apparso sul quotidiano La Repubblica un articolo sul pestaggio dei rom operato dai carabinieri di Bussolengo». E si chiede: «Come è possibile che un giornale così importante arrivi tanto in ritardo su una notizia del genere e che quasi tutti gli altri media la snobbino completamente?». La risposta di «Accattone» è la seguente: «Perché il pensiero prevalente sui rom è che siano una feccia dell'umanità e se qualcuno li pesta, magari in divisa, tutto sommato ci fa pure piacere». Dopo di che, cita una frase di Maurizio Blondet, già giornalista di Avvenire (il quotidiano dei vescovi) e del Giornale (il quotidiano di Berlusconi), ora direttore di Effedieffe, casa editrice e giornale on line. Ecco la frase: «Siamo noi cittadini i sospetti razzisti, sospettabili per principio, non quei pidocchi umani che, abituati a succhiare il sangue del popolo rumeno, sono venuti a succhiare il nostro». Incuriosito (e nauseato) sono andato a vedere il sito di Effedieffe, dove, tra libri revisionisti («Auschwitz, fine di un mito») e deliri catto-antisemiti, ho trovato l'articolo citato, che risaliva all'epoca dell'uccisione di Giovanna Reggiani, quando a promulgare decreti sulla «sicurezza» era il governo di Prodi all'unanimità. «In Romania - spiegava Blondet - esistono due società: i veri rumeni e gli zingari... questa seconda società è criminale, ferocissima, di accattoni minacciosi ». Bene, si dirà che questo Blondet è una scheggia impazzita, cattolico fondamentalista e nemico degli ebrei come purtroppo ne nascono tanti nel sottobosco nazionale. Dunque, quel che scrive non ha interesse. Ma ne siamo sicuri? Magari quei deliri sui ferocissimi accattoni e pidocchi che ci succhiano il sangue sono espressioni estreme di un sentimento medio. Quando abbiamo letto la prima mail - mandata dal sito rom Sucar Drom dieci giorni fa - in cui si raccontavano le sevizie subite, per ore e ripetutamente, da alcuni italiani di cultura rom dentro una caserma dei carabinieri, qui in redazione abbiamo fatto un salto sulla sedia: non solo perché sono ancora dolenti le cicatrici di Bolzaneto, ma anche perché abbiamo appunto la sensazione che in Italia, quando si tratta di rom e sinti le orecchie e gli occhi si chiudono. Nel numero di Carta che uscirà domani pubblichiamo un elenco delle aggressioni e dei casi in cui rom di ogni età sono stati feriti, o sono morti, nel nostro paese, negli ultimi due anni, escludendo gli sgomberi e i rastrellamenti. E anche a noi, che seguiamo la sorte di quei disgraziati da anni, la reiterazione, gratuità, impunità e ferocia di quel che i rom subiscono ha fatto una grande impressione. E allora, se due baristi normalmente razzisti si sentono autorizzati a aggredire delle persone, uccidendone una, perché sono «di colore» (espressione normalmente circolante sui media), questo è un fatto enormemente grave, perché segnala un senso comune feroce verso gli stranieri, i migranti e i diversi in genere. Ma se un gruppo di pubblici ufficiali commette quel che i rom di Bussolengo hanno denunciato (e documentato con le testimonianze e le foto che si trovano nel sito di Carta), questo evento significa che quel senso comune feroce ha contagiato le forze dell'ordine. Non voglio stabilire graduatorie, naturalmente. Ma i presidi che si sono fatti a Milano, dopo l'omicidio di Abdoul, non sono più essenziali, per alzare un argine al razzismo, del presidio che si è tenuto a Verona, l'altroieri, durante l'udienza in cui i rom vittime delle torture erano assurdamente processati per «resistenza a pubblico ufficiale». Al termine dell'udienza, il giudice ha negato la scarcerazione perché, ha spiegato, sussiste il pericolo di «reiterazione del reato». Certo, potrebbero di nuovo mettere la faccia nella traiettoria del pugno di un carabiniere, ragione per la quale uno di quei ragazzi ha perso tre denti. Però la procura di Verona ha aperto un'inchiesta sulla base della denuncia dei rom, e risulta che l'Arma dei carabinieri ha avviato un'indagine interna. Media o non media, alla fine hanno dovuto muoversi.

L'Ezln convoca una marcia per la «rabbia degna»

TORNANO GLI ZAPATISTI
il manifesto 18/09/2008

Il sub-comandante Marcos, leader dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln), ha invitato tutte le organizzazioni sociali e politiche messicane a partecipare al «Primo Festival mondiale della rabbia degna» per «cercare insieme una via di uscita alla attuale crisi mondiale». Un comunicato diffuso dal Ezln spiega quella che sarà la filosofia della kermesse: «In Messico e nei cinque continenti abbiamo trovato quello che intuimmo quando iniziammo questa nostra sesta fase: c'è un altro mondo, c'è un altro cammino». Il Festival, il cui slogan è «Un altro mondo, un altro cammino: giù e a sinistra», si svolgerà dal 26 dicembre al 4 gennaio 2009 e sarà ospitato in tre sedi differenti: Città del Messico, Oventik e San Cristobal de Las Casas, in Chiapas. Concludendo il messaggio, il «sub-comandante insorgente Marcos» precisa che questo evento fa parte di una serie di atti commemorativi per il 25esimo anniversario della nascita del Ezln.

I governatori anti-Evo battono in retromarcia

BOLIVIA IN FIAMME
il manifesto 18/09/2008
Con la solidarietà di nove presidenti sudamericani, Evo costringe la centrale dei ribelli a firmare l'armistizio. E gli Stati uniti mettono La Paz nella lista nera del narcotraffico Il sostegno dell'Unasur al governo boliviano costringe all'armistizio gli «autonomisti». E arriva la reazione Usa
Roberto Zanini

Tocca a Ruben Costas, il prefetto autonomista ribelle di Santa Cruz, sancire l'armistizio dei «civicos». Dopo una settimana di alzamiento , di scontri, di occupazioni, di roghi di uffici pubblici, di bastonature e di morti ammazzati, la ribellione della mezzaluna ricca e criolla contro Evo Morales, il suo governo e il suo movimento, tira il freno e accetta di fare quello che non avrebbe mai pensato di dover fare: sedersi al tavolo con il macaco minor , la scimmia piccola (il macaco mayor è Hugo Chavez), l'odiato indio inspiegabilmente diventato presidente, Evo Morales. Tanti, i morti ammazzati. Almeno 15 solo a Porvenir, la cittadina della provincia di Pando in cui i miliziani del peggiore dei prefetti ribelli, Leopoldo Fernandez - uno con legami col narcotraffico e con racconti di corruzione da accapponare la pelle - venerdì hanno teso un'imboscata a una marcia di campesinos: franchi tiratori sugli alberi e killer armati che hanno aggredito una folla, inseguendo i contadini come bestie da macello, facendo il tiro a segno con donne e bambini. I sopravvissuti hanno raccontato l'eccidio ieri nel parlamento di La Paz, Canal 7 ha trasmesso un video straziante: gente che fugge, uomini e donne che si gettano nel fiume Tahuamanu per sfuggire agli assassini, le urla dei killer in sottofondo: «Eccoli là, là, ci sono altri indios!», e giù fucilate. Il ministro dell'interno Alfredo Rada ha fatto i conti in pubblico: «Il quadro è questo - ha detto - 15 morti confermati e identificati, 30 feriti confermati e identificati e 106 desaparecidos che secondo i testimoni sono feriti e rischiano la vita». Il prefetto Fernandez è stato arrestato. Per violazione della legge marziale proclamata a Pando, e non per il massacro, ma è stato arrestato. Un plotone di militari è andato a prenderlo nella sede della sua prefettura. I soldati hanno parlamentato senza nemmeno cacciare fotografi e telecamere, poi l'hanno caricato - lui e altri dieci «civicos» di Pando - e l'hanno portato in una caserma a Oruro. «Verranno a liberarmi», ha detto mentre lo portavano via, e in effetti sono fioccate alcune blande dichiarazioni di solidarietà, ma ormai il vento era cambiato, la rivolta dei prefetti aveva rallentato, alcuni già trattavano con il governo di La Paz. Il vicepresidente Garcia Linera si è incaricato dei contatti con la centrale dei ribelli, la Conalde, il Consejo nacional democratico, la sigla in cui si riconoscono gli organismi degli autonomisti. Nella notte di ieri Morales approva un testo, due viceministri lo firmano, viene trasmesso a uno dei prefetti ribelli, Mario Cossìo di Tarija, perché lo passi agli altri. Cossìo ne parla invece col cardinale Julio Terrazas - la chiesa ufficiale è schieratissima coi prefetti - e con il prefetto di Santa Cruz Ruben Costas, il vero capo dei ribelli. I prefetti provano a diluire la resa in uno show mediatico, vanno in tv a rifirmare un loro vecchio documento invece di quello del governo, ma Morales e Garcia Linera resistono: o il nostro testo o niente. E Costas alla fine rende pubblico di aver firmato. Poco dopo piega la testa anche Cossìo, e dopo di lui tutta la Conalde. Il prefetto arrestato Fernandez non serve più, il governo annuncia che pensa di sostituirlo e nessuno protesta. La rivolta, forse, è finita. I civicos cominciano ad abbandonare le sedi pubbliche occupate (e spesso devastate) nel loro Oriente, l'esercito circonda senza resistenze le installazioni petrolifere, le sedi di radio e tv pubbliche, gli aeroporti. I militanti di Morales - schierati con i volti coperti e nelle mani bastoni e vecchio schioppi di qualche rivolta fa, più qualche fucile a pompa smobilitano i blocchi stradali con cui avevano cominciato a chiudere le vie di comunicazione per la mezzaluna autonomista. La tregua sembra tenere. Tre tavoli di lavoro: l'imposta sugli idrocarburi, che Morales ha tolto alle prefetture per finanziare la pensione nota come Renta Dignidad, colpendo gli autonomisti nelle tasche, e poi un tavolo sulle autonomie e uno sulla nuova costituzione, approvata con un atto di forza dalle sole forze politiche alleate di Morales, che il presidente vuole sottoporre a referendum al più presto. Un voto visto come la peste da un po' di tempo Evo vince tutte le elezioni - dai ribelli, perché ne sarebbe la lapide. E loro lo sanno. Appuntamento a Cochabamba, anche da oggi dice Morales, ma i ribelli chiedono più tempo. Non c'è un vero vincitore e non c'è un vero vinto, i drammatici problemi della Bolivia non sono risolti, ma Morales è scampato a una specie di golpe civile ed ora è un po' più forte, i prefetti ribelli hanno provato a fare la guerra, hanno fallito e sono un po' più deboli. Sui giornali, quasi tutti della destra, cominciano a uscire critiche persino contro Branko Marinkovic, l'imprenditore boliviano-croato che è un po' il deus ex machina della ribellione. Il giorno prima, l'Unasur - l'Unione degli stati sudamericani - aveva approvato un documento di solidarietà al governo boliviano, con 9 voti su 12. Un aiuto fondamentale per il presidente Morales, seduto su una polveriera, ma non era andato tutto liscio e il brasiliano Lula aveva imposto condizioni (smettere di insultare gli Stati uniti, tra le altre) e chiesto a brutto muso a Morales se era intenzionato a andare avanti a tutti i costi oppure no. Gli Usa, da parte loro, hanno prontamente iscritto la Bolivia (e già che c'erano anche il Venezuela) alla lista nera dei paesi che non lottano contro il narcotraffico. Il dipartimento di stato non ha digerito l'espulsione dell'ambasciatore Goldberg, e un portavoce ha criticato l'imminente esercitazione di navi russe nelle acque dei Caraibi: «La cosa più interessante - ha motteggiato Sean McCormack - è sapere se la Russia troverà ancora qualche nave in grado di arrivare fino in Venezuela. Mi hanno detto che hanno un gommone, se per caso si dovessero guastare lungo il viaggio». È sarcasmo, ma il «cortile di casa» americano esiste un po' meno ogni giorno che passa.

Il bluff DEL BIOFUEL - CIBO CONTRO COMBUSTIBILI LA GUERRA DI DOMANI

il manifesto 18/09/2008
I biocarburanti non sono i combustibili dei poveri, ma il cibo dei poveri trasformato in calore, elettricità e trasporti. Gli Stati Uniti stanno spingendo le altre nazioni del terzo mondo a produrre biocarburante in modo da soddisfare i propri fabbisogni energetici, anche se ciò significa depredare le risorse altrui
Vandana Shiva

Dal 3 al 14 dicembre 2007, Bali ha ospitato oltre 10.000 rappresentanti di governo e della società civile per una conferenza della Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici, un trattato ambientale internazionale nel cui ambito è stato negoziato il Protocollo di Kyoto. Il protocollo scade nel 2012 e Bali aveva il compito di dare avvio alle trattative per lo scenario post-Kyoto. Nel 2008 nessuno può ormai negare che sia in atto un cambiamento climatico causato dall'uomo. Tuttavia, l'impegno a mitigarne gli effetti e ad aiutare le aree vulnerabili ad adattarvisi non corrisponde alla consapevolezza del disastro. La mitigazione dei cambiamenti climatici richiede sostanziali cambiamenti nei modelli di produzione e di consumo. La globalizzazione ha spinto la produzione e il consumo mondiali ad incrementare le emissioni di anidride carbonica. Le regole per la liberalizzazione commerciale della Omc, l'Organizzazione mondiale del commercio, sono in realtà leggi che costringono i paesi a seguire la via delle alte emissioni. In modo analogo, la Banca Mondiale, che concede prestiti per la costruzione di superstrade ad alta circolazione e di centrali termiche, per l'industrializzazione dell'agricoltura e per la realizzazione di sistemi di distribuzione organizzata, forza i paesi a emettere maggiori quantitativi di gas a effetto serra. Poi ci sono le società colossi, come la Cargill e la Walmart, principali responsabili della distruzione di economie locali e sostenibili, che spingono le società, una dopo l'altra, alla dipendenza da un'economia globale ecologicamente distruttiva. La Cargill, che svolge un ruolo importante nella diffusione di coltivazioni di soia in Amazzonia e di piantagioni di palma da olio nelle foreste pluviali dell'Indonesia, incrementa le emissioni sia incendiando le foreste che distruggendo gli enormi bacini carboniferi presenti nelle foreste pluviali e nelle torbiere. Il modello del commercio centralizzato a lunga distanza di Walmart è una ricetta per aumentare il carico di anidride carbonica dell'atmosfera. Il primo passo verso la mitigazione richiede che si fissi l'attenzione sulle azioni reali degli attori reali. Le azioni reali sono azioni come l'abbandono dell'agricoltura ecologica e dei sistemi alimentari locali. Fra gli attori reali ci sono l'agribusiness globale, la Omc e la Banca Mondiale. Le azioni reali comportano la distruzione di economie rurali a bassa emissione in favore di un'espansione urbana incontrollata, ideata e progettata da imprenditori e società edili. Le azioni reali comportano la distruzione di sistemi di trasporto sostenibili basati sull'energia rinnovabile e del trasporto pubblico a favore degli autoveicoli privati. Gli attori reali coinvolti in questa transizione verso la non-sostenibilità nella mobilità sono le compagnie petrolifere e le società automobilistiche. Kyoto ha evitato di trattare la questione difficile e significativa dell'interruzione di quelle attività che sono causa di elevate emissioni, ha eluso anche la sfida politica alla regolamentazione degli inquinatori e all'imposizione di sanzioni nei loro confronti, in conformità ai principi adottati dal Summit della Terra di Rio. Ciò che ha fatto, invece, è stato mettere in atto un meccanismo di commercio di emissioni che, in realtà, ricompensa gli inquinatori, assegnando loro diritti sull'atmosfera e permettendo che questi diritti all'inquinamento diventassero oggetto di contrattazione. Oggi, il mercato delle emissioni è arrivato a 30 miliardi di dollari, ma ci si aspetta che raggiunga il trilione. Le emissioni di anidride carbonica continuano ad aumentare, mentre crescono anche i profitti da «aria fritta». La chiamo «aria fritta» in senso letterale, in quanto aria calda che porta al riscaldamento globale, e in senso metaforico, perché è aria fritta che si basa su un'economia finanziaria fittizia che ha sopraffatto, in dimensioni e nella nostra percezione, la vera economia. Un'economia d'azzardo ha permesso alle società e ai loro proprietari di moltiplicare il patrimonio senza limite e senza alcuna relazione con il mondo reale. Eppure, questi patrimoni sempre insaziabili cercano di prendere possesso delle risorse reali delle persone - la terra e le foreste, le aziende agricole e il cibo - per trasformale in denaro contante. Senza tornare al mondo reale non si possono trovare le soluzioni che aiuteranno a mitigare il cambiamento climatico. Un altro falso rimedio al cambiamento climatico è la promozione di biocarburanti a base di mais, soia, olio di palma e jatropa. I biocarburanti, combustibili ottenuti dalle biomasse, continuano ad essere la principale fonte energetica per le popolazioni povere del mondo. L'azienda agricola ecologica e biodiversa, ossia biologicamente varia, non è solo una fonte di cibo, è anche fonte di energia. L'energia per cucinare deriva dalle biomasse non commestibili, come sterco bovino essiccato, steli di miglio e gambi di leguminose, da specie agroforestali presenti sui terreni boschivi di proprietà dei villaggi. Gestite in modo sostenibile, le comunanze dei villaggi sono da secoli fonte di energia decentralizzata. I biocarburanti industriali non sono i combustibili dei poveri, ma sono il cibo dei poveri trasformato in calore, elettricità e trasporti. I biocarburanti liquidi, soprattutto l'etanolo e il biodiesel, sono uno dei settori di produzione in maggiore crescita, stimolato dalla ricerca di risorse alternative ai carburanti fossili, da un lato, per evitare la catastrofica impennata di prezzo del petrolio, e dall'altro, per ridurre le emissioni di anidride carbonica. Il presidente Bush sta tentando di approvare una serie di leggi che obbligano all'utilizzo di 35 miliardi di galloni di biocarburante entro il 2017. Alexander, del Dipartimento per lo sviluppo sostenibile della FAO ha affermato: «È iniziato il graduale allontanamento dal petrolio. Nei prossimi 15-20 anni potremo vedere i biocombustibili coprire un pieno 25% dei fabbisogni energetici mondiali». Negli ultimi cinque anni, la sola produzione globale di biocarburanti è raddoppiata e sembra destinata a raddoppiare ulteriormente nei prossimi quattro. Fra i paesi che di recente hanno acconsentito a una nuova politica favorevole ai biocarburanti sono presenti Argentina, Australia, Canada, Cina, Colombia, Ecuador, India, Indonesia, Malawi, Malesia, Messico, Mozambico, Filippine, Senegal, Sudafrica, Tailandia e Zambia. Ci sono due tipi di biocarburanti industriali: etanolo e biodiesel. L'etanolo può essere derivato da prodotti ricchi di saccarosio, come canna da zucchero e melasse, sostanze ricche di amido, come mais, orzo e grano. L'etanolo viene mescolato con il petrolio. Il biodiesel si produce solo con sostanze vegetali, come l'olio di palma, l'olio di soia e l'olio di semi di colza. Il biodiesel viene mescolato al diesel. (...) Il settore dei biocarburanti è cresciuto rapidamente in tutto il mondo. Gli Stati Uniti e il Brasile hanno creato industrie per la produzione di etanolo e anche l'Unione Europea si sta mettendo di fretta al passo per esplorare il mercato potenziale. I governi di tutto il mondo incoraggiano la produzione di biocarburante con politiche a sostegno. Gli Stati uniti stanno spingendo le altre nazioni del terzo mondo ad introdurre la produzione di biocarburante in modo da soddisfare i propri fabbisogni energetici, anche se questo significa svaligiare le risorse altrui. È inevitabile che questa massiccia crescita della domanda di cereali si risolverà a scapito della soddisfazione dei bisogni umani, con i poveri incapaci di competere economicamente e tagliati fuori dal mercato alimentare. Nel febbraio dello scorso anno il Movimento dei Senza Terra brasiliano ha rilasciato una dichiarazione in cui nota che «l'espansione della produzione di biocarburanti aggrava la fame nel mondo. Non possiamo mantenere i serbatoi pieni mentre gli stomaci si vuotano». La deviazione delle risorse alimentari a risorse per produzione di carburante ha già innalzato il prezzo di granturco e soia. In Messico si sono verificate rivolte per l'aumento di prezzo delle tortillas. E questo non è che l'inizio. Immaginate quanta terra è necessaria per produrre il 25% del combustibile utilizzando le risorse alimentari. Una tonnellata di granturco produce 413 litri di etanolo. 35 milioni di galloni di etanolo richiedono 320 milioni di tonnellate di granturco. Nel 2005 gli Stati uniti hanno prodotto 280,2 milioni di tonnellate di granturco. Con la stipula del Nafta, gli Stati Uniti hanno distrutto tutte le piccole aziende agricole messicane, rendendo il Messico dipendente dal granturco Usa. È stato proprio questo il motivo alla base della rivolta zapatista. Oggi nel paese, in seguito alla conversione del granturco in biocarburante, il prezzo del granturco ha subito un forte rialzo. I biocarburanti industriali vengono promossi come fonte di energia rinnovabile e mezzo per ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Tuttavia, ci sono due inoppugnabili ragioni ecologiche che spiegano perché la conversione di colture come soia, granoturco e palma da olio in carburanti liquidi possa aggravare il caos climatico e il carico di CO2. In primo luogo, la deforestazione causata dall'espansione delle piantagioni di soia e di palme da olio sta portando a un aumento di emissioni di CO2. Secondo le stime della Fao, ogni anno vengono rilasciati nell'atmosfera 1,6 miliardi di tonnellate di gas a effetto serra provenienti dai disboscamenti, tra il 25 e il 30% dei gas totali. Entro il 2022 le piantagioni per la produzione di biocarburante potrebbero avere distrutto il 98% delle foreste pluviali indonesiane. (...) In secondo luogo, la conversione di biomassa in carburante liquido comporta l'impiego di quantitativi di carburante fossile maggiori rispetto a quello che sostituisce. La produzione di un gallone di etanolo richiede 28.000 Kcal. Un gallone di etanolo fornisce 19.400 kcal di energia. Un rendimento energetico pari al 43%. Gli Stati Uniti si serviranno del 20% del proprio granturco per produrre 5 miliardi di galloni di etanolo, che sostituiranno l'1% dell'uso di combustibile. Se si dovesse impiegare il 100% del granturco, si sostituirebbe solo il 7% del petrolio totale. Non è certo una soluzione questa, non per controbattere i prezzi record del petrolio, e né per mitigare il caos climatico. (David Pimentel alla conferenza IFG sulla "Triplice crisi", Londra, febbraio 23-25, 2007) Ed è fonte di altre crisi. Per produrre un gallone di etanolo vengono usati 1700 galloni di acqua. Il granturco necessita di più azoto fertilizzante, insetticidi ed erbicidi di qualsiasi altra coltivazione. Questi falsi rimedi finiranno per accrescere la crisi climatica, aggravando e acuendo al contempo la diseguaglianza, la fame e la povertà. Esistono, tuttavia, soluzioni reali che possono mitigare il cambiamento atmosferico ed anche influire sulla riduzione della fame e della povertà. Secondo il Rapporto Stern, l'agricoltura è responsabile del 14% delle emissioni, lo sfruttamento del terreno (con riferimento soprattutto alla deforestazione) lo è del 18% e il trasporto del 14%. All'interno di questo computo rientra il crescente fenomeno del trasporto di derrate fresche, che potrebbero essere coltivate in loco. L'agricoltura che fa uso della chimica industriale, nota anche come Rivoluzione Verde (Green Revolution) quando venne introdotta nei paesi del Terzo Mondo, è la fonte principale dei tre gas a effetto serra: anidride carbonica, ossido di azoto e metano. L'anidride carbonica viene emessa quando si utilizzano carburanti fossili per i macchinari e per il pompaggio dell'acqua dai pozzi, per la produzione di fertilizzanti chimici e pesticidi. I fertilizzanti chimici emettono azoto ossigeno che, come gas serra, è 300 volte più letale dell'anidride carbonica. Infine, l'allevamento di animali a granaglie è la fonde principale di metano. Gli studi indicano che un passaggio da una dieta a base di granaglia a una dieta biologica a base erbacea potrebbe ridurre fino al 50% l'emissione di metano attribuibile al bestiame. Non tutti i sistemi agricoli contribuiscono, tuttavia, alle emissioni di gas serra. L'agricoltura ecologica e biologica diminuisce le emissioni sia riducendo la dipendenza da combustibili fossili, da fertilizzanti chimici e da alimentazione intensiva, sia assorbendo un maggiore quantitativo di carbonio nel terreno. I nostri studi dimostrano un aumento di sequestro di carbonio fino al 200% nei sistemi biologici biodiversi. Quando «ecologico e biologico» si combinano a «diretto e locale», le emissioni vengono ulteriormente ridotte, grazie alla riduzione del consumo energetico per il trasporto del cibo, l'imballaggio e la refrigerazione. Il sistema alimentare locale ridurrà la necessità di incrementare l'agricoltura nelle foreste pluviali di Brasile e Indonesia. Con una transizione tempestiva, potremmo ridurre le emissioni, aumentare la garanzia e la qualità del cibo e migliorare la resistenza delle comunità rurali nell'impatto col cambiamento climatico. Optare per una transizione dal sistema alimentare industriale globalizzato, imposto da Omc, Banca Mondiale e Agribusiness globale, a sistemi alimentari ecologici e locali, rappresenta una strategia di mitigazione e di adattamento al cambiamento climatico. Protegge i poveri e protegge il pianeta. Lo scenario post-Kyoto deve necessariamente includere l'agricoltura ecologica come soluzione climatica.

Traduzione di Laura Pagliara

Barrot a Maroni: «Ritira l'aggravante di clandestinità»

BRUXELLES
il manifesto 18/09/2008
Per il commissario alla Giustizia europeo la norma non è in liena con i principi comunitari
Alberto D'Argenzio
BRUXELLES

L'aggravante di clandestinità va modificato perché non è in linea con i dettami comunitari. Lo ha ribadito ieri il portavoce del commissario alla Giustizia Jacques Barrot. Una precisazione che non arriva a caso. Martedì mattina Gerard Deprez, Presidente della Commissione libertà pubbliche del Parlamento europeo aveva mostrato a Barrot gli esiti, negativi, del parere dei servizi giuridici sul decreto legge approvato definitivamente dal Senato il 23 luglio scorso. Passano 24 ore e arriva il richiamo della Commissione, imbeccata in sala stampa. «Abbiamo già detto alle autorità italiane - ha affermato Michele Cercone, portavoce di Barrot - che riteniamo ci siano modifiche da fare». I servizi giuridici del Parlamento hanno infatti indicato che l'aggravante di clandestinità (un terzo della pena in più) è contraria al diritto comunitario quando viene applicata ai delitti commessi «da un cittadino di uno Stato membro che si trova irregolarmente nel territorio di un altro Stato membro». Tanto per fare un esempio a caso, il Parlamento dice che non può essere imposta ai rom romeni, mentre invece si può con i rom ucraini o con i senegalesi. Il problema è che il decreto italiano non fa differenze tra clandestini extracomunitari, su cui la Ue non ha competenza, e irregolari comunitari, su cui invece Bruxelles può metter bocca nel nome della non discriminazione tra cittadini Ue. Ora Commissione e Parlamento chiedono all'Italia di modificare il testo sul versante dei comunitari, ma farlo su questo punto, informa una fonte comunitaria «potrebbe creare dei problemi di validità interna, perché sana una discriminazione tra comunitari, creando una discriminazione tra diversi tipi di stranieri». Al di là di questo eventuale fronte interno, rimane la richiesta di Bruxelles alla modifica del testo già approvata e in vigore dal 25 luglio. E non solo quella. Barrot ha chiesto a Maroni di apportare dei cambiamenti anche sui tre decreti in via di definizione, ma già presentati alla Commissione lo scorso primo agosto. Si tratta di tre decreti di modifica: sulla legge che recepisce la direttiva sulla libera circolazione, quella sul ricongiungimento familiare e quella sul diritto di asilo. In particolare è la prima a dare problemi e per due motivi: l'automaticità delle espulsioni per il comunitario che soggiorna illegalmente in Italia e la soglia economica imposta per dimostrare di non pesare sul sistema sociale nazionale. La direttiva non vuole automaticità e non prevede soglie di reddito definite e nemmeno, come vorrebbe il governo, che il cittadino Ue presente in Italia debba dimostrare la provenienza lecita del suo reddito. «La Commissione - conclude Cercone - farà quanto in sua competenza per far sì che il diritto italiano resti conforme alla Ue».

Il gip: «I due baristi stanno mentendo. Non era una rissa»

ABDUL GUIBRE
il manifesto 18/09/2008
Alessandro Braga
MILANO

Restano in carcere Fausto e Daniele Cristofoli, i due baristi che domenica mattina all'alba hanno ucciso a sprangate Abdul Guibre, il diciannovenne italiano di origini africane, in via Zuretti a Milano, a pochi metri dal locale che gestivano. Il giudice per le indagini preliminari di Milano Micaela Curami ieri ha convalidato lo stato di fermo per i due, confermando anche la custodia cautelare in carcere. Per il magistrato sussiste la possibilità del pericolo di fuga, della reiterazione del reato e dell'inquinamento delle prove. Secondo il gip allo stato attuale delle indagini le dichiarazioni fornite dagli accusati, che confermano le prime rilasciate già domenica, e che puntano a far derubricare l'episodio a semplice rissa «finita tragicamente», non stanno in piedi. Insomma, i due mentono. «La versione dei fatti fornita dai Cristofoli contiene zone d'ombra non chiarite», ha dichiarato Micaela Curami poco dopo aver depositato la sua documentazione. Il giudice fa riferimento al fatto che padre e figlio, fin dall'inizio, sia quando sono usciti dal bar per inseguire i giovani, sia dopo l'aggressione a Abdul e ai suoi amici, non si sono curati di verificare se i soldi dell'incasso fossero spariti davvero come pensavano all'inizio. E su queste basi il gip scrive che «è presumibile pensare che fossero fin dall'inizio consapevoli che i ragazzi avessero sottratto solamente dei biscotti». In più il magistrato ritiene molto più verosimili le dichiarazioni degli amici di Abdul che nelle loro ricostruzioni parlano di un accanimento da parte di padre e figlio sul corpo a terra del ragazzo. E che in particolare smontano la tesi fornita da Daniele Cristofoli di un «solo colpo sferrato alla cieca». Nei loro racconti Abdul sarebbe stato colpito con l'asta di ferro prima da Cristofoli figlio, poi in seguito dal padre che l'avrebbe raccolta per continuare a infierire sul giovane mentre questo era già a terra. Oggi l'autopsia sul corpo di Abdul chiarirà le cause della morte. Intanto non si fermano le iniziative di solidarietà a «Abba» e alla sua famiglia: ieri una quarantina di ragazzi proveniente da tutta la provincia di Milano si è ritrovata a Cernusco sul Naviglio, la cittadina alle porte del capoluogo lombardo dove il ragazzo viveva, e hanno realizzato nel parco giochi davanti alla casa di Abdul un enorme murales che ritrae il ragazzo sorridente con accanto la scritta «per non dimenticare». E sempre ieri Cgil, Cisl e Uil si sono ritrovati in piazza San Babila per ribadire la loro contrarietà a quanto successo e denunciare il pericolo di una «deriva razzista» della città. Questa mattina toccherà ai ragazzi dei collettivi studenteschi cittadini, che si danno appuntamento alle 9,30 in largo Cairoli. Sabato sarà la volta della manifestazione antirazzista lanciata da don Gino Rigoldi, Moni Ovadia, Renato Sarti e Nico Colonna. Il corteo partirà alle 14,30 dai bastioni di porta Venezia per concludersi in piazza Duomo. Ai nomi dei primi firmatari si sono uniti ieri anche Dario Fo e Franca Rame, Alessandro Robecchi, Ascanio Celestini e tanti altri nomi della Milano democratica, oltre ai partiti della sinistra, i vari centri sociali milanesi e le maggiori associazioni di volontariato meneghine. Una comunione di intenti che da questi parti non si vedeva da tempo e che merita la partecipazione di tutti. L'appello è chiaro, «Per Abdul, perché non succeda più», perché per i promotori la morte del giovane italo-africano non solo è assurda, ma dipende dal clima di intolleranza e dall'ondata di razzismo che sempre più si sta propagando a Milano.

Appello per la mobilitazione dell'11 ottobre

Un'altra Italia
Un'altra Politica

Le politiche aggressive del Governo di centrodestra, sostenute in primo luogo da Confindustria, disegnano il quadro di un'Italia ripiegata su se stessa e che guarda con paura al futuro, un Paese dove pochi comandano, in cui il lavoro viene continuamente umiliato e mortificato, nel quale l'emergenza è evocata costantemente per giustificare la restaurazione di una società classista razzista e sessista. Che vede nei poveri, nei marginali e nei differenti, i suoi principali nemici. Che nega, specie nei migranti, il riconoscimento di diritti di cittadinanza con leggi come la Bossi Fini che non solo generano clandestinità e lavoro nero, ma calpestano fondamentali valori di umanità.
Questa è la risposta delle destre alla crisi profonda, di cui quella finanziaria è solo un aspetto, che attraversa il processo di globalizzazione e le teorie liberiste che l'hanno sostenuto. Una risposta che, naturalmente, ignora il fatto che solo un deciso mutamento del modello economico oggi operante può risolvere problemi drammatici, dei quali il più grave è la crisi ecologica planetaria. Spetta alla sinistra contrapporre un'altra idea di società e un coerente programma in difesa della democrazia e delle condizioni di vita delle persone. E' una risposta che non può tardare ed è l'unico modo per superare le conseguenze della sconfitta elettorale e politica.
Ci proponiamo perciò di contribuire alla costruzione di un'opposizione che sappia parlare al Paese a partire dai seguenti obiettivi :

1 riprendere un'azione per la pace e il disarmo di fronte a tutti i rischi di guerra, oggi particolarmente acuti nello scacchiere del Caucaso. La scommessa è ridare prospettiva a un ruolo dell'Europa quale principale protagonista di una politica che metta la parola fine all'unilateralismo dell'amministrazione Bush, al suo programma di scudo spaziale e di estensione delle basi militari nel mondo, all'occupazione in Iraq e Afghanistan (dove la presenza di truppe italiane non ha ormai alcuna giustificazione), ma anche alla sindrome da grande potenza che sta impossessandosi della Russia di Putin;

2 imporre su larga scala un'azione di difesa di retribuzioni e pensioni falcidiate dal caro vita, il quale causa un malessere che la destra tenta di trasformare in egoismo sociale, guerra tra poveri, in un protezionismo economico del tutto insensibile al permanere di gravi squilibri tra il Nord e il Sud del mondo. Di fronte alla piaga degli "omicidi bianchi" è necessario intensificare i controlli e imporre l'applicazione delle sanzioni alle imprese. Si tratta inoltre di valorizzare tutte le forme di lavoro: lottando contro precariato e lavoro nero, anche attraverso la determinazione di un nuovo quadro legislativo; sostenendo il reddito dei disoccupati e dei giovani inoccupati; ottenendo il riconoscimento di forme di lavoro informale e di economia solidale;

3 respingere l'attacco alla scuola pubblica, all'Università e alla ricerca, alla cultura, al servizio sanitario nazionale, ai diritti dei lavoratori e alla contrattazione collettiva . E' una vera e propria demolizione attuata attraverso un'azione di tagli indiscriminati e di licenziamenti, l'introduzione di processi di privatizzazione, e un'offensiva ideologica improntata a un ritorno al passato di chiaro stampo reazionario (maestro unico, ecc.). L'obiettivo della destra al governo è colpire al cuore le istituzioni del welfare che garantiscono l'esercizio dei diritti di cittadinanza. L'affondo è costituito da un'ipotesi di federalismo fiscale deprivato di ogni principio di mutua solidarietà;

4 rispondere con forza all'attacco contro le politiche volte a contrastare la violenza degli uomini contro le donne , riconoscendo il valore politico della lotta a tutte le forme di dominio patriarcale, dell'autodeterminazione delle donne e della libertà femminile nello spazio pubblico e nelle scelte personali;

5 sostenere il valore della laicità dello stato e riconoscere piena cittadinanza alle richieste dei movimenti Gay Lesbici Trans Queer per la pari dignità e l'uguaglianza dei diritti, e a quelle relative alla scelta del proprio destino biologico;

6 sostenere le vertenze territoriali (No Tav, No Dal Molin, ecc.) che intendono intervenire democraticamente su temi di grande valore per le comunità, a partire dalle decisioni collettive sui temi ambientali, sulla salute e sui beni comuni, prima fra tutti l'acqua. Quella che si sta affermando con la destra al governo è un'idea di comunità corporativa, egoista, rozza e cattiva, un'idea di società che rischia di trasformare le nostre città e le loro periferie nei luoghi dell'esclusione. Bisogna far crescere una capacità di cambiamento radicale delle politiche riguardanti la gestione dei rifiuti e il sistema energetico . Con al centro la massima efficienza nell'uso delle risorse e l'uso delle fonti rinnovabili. Superando la logica dei megaimpianti distruttivi dei territori, del clima e delle risorse in via di esaurimento. E' fondamentale sostenere una forte ripresa del movimento antinuclearista che respinga la velleitaria politica del governo in campo energetico.

7 contrastare tutte le tentazioni autoritarie volte a negare o limitare fondamentali libertà democratiche e civili , a partire dalle scelte del governo dai temi della giustizia, della comunicazione e della libertà di stampa. O in tema di legge elettorale mettendo in questione diritti costituzionali di associazione e di rappresentanza. Si tratta anche di affermare una cultura della legalità contro le tendenze a garantire l'immunità dei forti con leggi ad personam e a criminalizzare i deboli.

Per queste ragioni e con questi obiettivi vogliamo costruire insieme un percorso che dia voce ad un'opposizione efficace, che superi la delusione provocata in tanti dal fallimento del Governo Prodi e dalla contemporanea sconfitta della sinistra, e raccolga risorse e proposte per questo paese in affanno. L'attuale minoranza parlamentare non è certo in grado di svolgere questo compito, e comunque non da sola, animata com'è da pulsioni consociative sul piano delle riforme istituzionali, e su alcuni aspetti delle politiche economiche e sociali (come tanti imbarazzati silenzi dimostrano, dal caso Alitalia all'attacco a cui è sottoposta la scuola, dalla militarizzazione della gestione dei rifiuti campani alle ordinanze di tante amministrazioni locali lesive degli stessi principi costituzionali). Bisogna invece sapere cogliere il carattere sistematico dell'offensiva condotta dalle destre, sia sul terreno democratico, che su quelli civile e sociale, per potere generare un'opposizione politica e sociale che abbia l'ambizione di sconfiggere il Governo Berlusconi. Quindi, proponiamo una mobilitazione a sinistra, per "fare insieme", al fine di suscitare un fronte largo di opposizione che, pur in presenza di diverse prospettive di movimenti partiti, associazioni, comitati e singoli, sappia contribuire a contrastare in modo efficace le politiche di questo governo.
Al tal fine proponiamo la convocazione per l'11 ottobre di un'iniziativa di massa, pubblica e unitaria, rivolgendoci a tutte le forze politiche, sociali e culturali della sinistra e chiedendo a ognuna di esse di concorrere a un'iniziativa che non sia di una parte sola. Il nostro intento è contribuire all'avvio di una nuova stagione politica segnata da mobilitazioni, anche territorialmente articolate, sulle singole questioni e sui temi specifici sollevati.

Adesioni

Anna Picciolini, Bianca Pomeranzi, Maurizio Acerbo, Andrea Agostini, Mario Agostinelli, Vittorio Agnoletto, Andrea Alzetta, Fabio Amato, Bianca Dacomo Annoni, Ciro Argentino, Giorgio Arlorio, Giuseppe Albanese, Stefano G. Azzarà , Andrea Bagni, Rossana Ballino, Paola Baraffi, Imma Barbarossa, Gianni Belloni, Alessandro Biasoli , Bianca Mara, Carlo Baldini, Maria Luisa Boccia, Gabriele Bollini, Elio Bonfanti , Carlo Borriello , Mara Bianca, Benedetta Buccellato, Alberto Burgio, Sergio Bellucci, Gabriele Bollini, Bonadonna Salvatore, Nerina Benuzzi, Maddalena Berrino, Fausto Bertinotti, Stefano Bianchi, Marina Bosco, Giacinto Botti, Augustin Breda, Antonio Bruno, Gloria Buffo, Oriella Busetto, Bianca Bracci Torsi, Paolo Cacciari, Daniele Calli, Maria Campese, Giovanna Capelli, Mauro Cannoni, Antonio Castronovi, Francesca Cavarocchi, Maria Grazia Campus,Sergio Caserta, Wilma Casavecchia, Cesare Chiazza, Elena Canali, Giuseppe Chiarante, Luciana Castellina, Guido Cappelloni, Bruno Ceccarelli, Stefano Ciccone ,Aurelio Crippa, Mario Cena, Luigi Cerini, Gianpiero Ciambotti, Paolo Ciofi, Anna Cotone, Eros Cruccolini, Claudio Cugusi, Rosa Maria Cutrufelli, Sandro Curzi, Flavio Cogo, Luisella De Filippi, Elettra Deiana, Nunzio D'Erme, Dante De Angelis, Loredana De Checchi, Paolo De Nardis , Piero Di Siena, Antonella Del Conte, Walter De Cesaris, Elena Del Grosso, Jose Luis Del Roio, Gemma De Rosa, Valeria Di Blasio, Pippo Di Marca , Mauro Di Marco, Dalma Domeneghini, Ferruccio Danini, Eugenio Donise, Erminia Emprin, Roberta Fantozzi , Pietro Folena, Riccardo Ferraro , Ciccio Ferrara, Eleonora Forenza, Loredana Fraleone, Mercedes Frias , Francesco Francescaglia, Davide Franceschini, Francesca Foti , Matteo Gaddi , Stefano Galieni, Don Gallo, Clara Gallini , Rocco Giacomino, Matteo Gerardo, Alfonso Gianni, Dino Greco, Fosco Giannini, Paul Ginsborg, Franco Giordano, Sergio Giovagnoli, Claudio Grassi, Cristina Grandi, Heidi Giuliani, Chiara Giunti, Alfiero Grandi, Giuseppe Gonnella, Celeste Grossi, Rita Guglielmetti, Paolo Halacia, Margherita Hack, Giuseppe Joannas, Igor Kocijancic, Pietro Ingrao, Donata Ingrilli , Beniamino Lami , Antonio Lareno, Rita Lavaggi, Gigi Livio, Salvatore Lihygm, Mirko Lombardi, Roberto Latella, Umberto Lauren, Piero Leonesio, Carlo Leoni, Orazio Licandro, Lia Losa , Salvatore Lihard , Dora Maffezzoli, Ramon Mantovani, Laura Marchetti, Gerardo Marletto, Graziella Mascia, Roberto Mastroianni, Corrado Mauceri, Filippo Miraglia, Sergio Mirimao, Citto Maselli, Giorgio Mele, Paolo Menichetti, Lidia Menapace, Gennaro Migliore , Gianni Minà, Siliano Mollitti, Mario Monicelli, Valerio Monteventi, Giorgio Molin, Emilio Molinari, Andrea Morniroli, Andrea Montagni , Sandro Morelli, Roberto Musacchio , Gianni Naggi, Amalia Navoni , Fabrizio Nizi , Simone Oggionni, Andrea Occhipinti, Franco Ottaviano , Manuela Palermi , Mario Palermo , Gianni Palumbo, Simona Panzino, Luigi Pegolo, Elisabetta Piccolotti , Silvana Pisa, Francesco Piobbichi, Marina Pivetta, Giuseppe Prestipino, Giovanni Prezioso, Ciro Pesacane, Renata Puleo , Carla Ravaioli, Luigi Regolo, Fausto Razzi , Simona Ricotti, Tiziano Rinaldini , Giorgio Riolo , Anna Maria Riviello, Mino Ronzitti, Rossano Rossi, Giovanni Russo Spena , Francesco Saccomano, Mario Sai , Don Roberto Sardelli, Antonia Sani, Pino Sgobio , Ersilia Salvato, Pasquale Scimeca , Arturo Scotto , Luigi Servo, Anita Sonego, Claudia Sacconi, Raffaele Salinari, Consiglia Salvino, Davide Scagliante, Paola Scarnati, Aldo Semeraro, Patrizia Sentinelli,Antonio Sgrò, Graziella Silipo, Massimiliano Smeriglio, Niko Somma, Gabriella Stramaccioni, Maria Luisa Severi, Bruno Steri, Gigi Sullo, Luigi Tamburino , Federico Tommasello, Patrizio Tonon, Massimo Torelli, Stefano Tassinari, Aldo Tortorella , Sergio Tosini, Luca Trevisan, Mauro Valiani, Mauro Vannoni , Fulvio Vassallo Paleologo, Benedetto Vertecchi, Nichi Vendola, Jacopo Venier, Pasquale Voza, Sergio Zampini, Renato Zanoli, Maurizio Zipponi, Angelo Zola, Katia Zanotti

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Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943 (Nutrimenti, pp. 287, euro 18)

Sandro Padula
Le ultime parole pronunciate da Gianfranco Fini alla festa di Azione giovani, e poi contestate, non hanno modificato la rappresentazione riduzionista del fascismo fatta propria dalla destra postfascista. Un giudizio storico che censura unicamente le leggi razziste del 1938 per salvaguardare tutto il resto, anche la spietata politica coloniale condotta durante il ventennio.
Una delle pagine più criminali della nostra storia rimossa dalla memoria nazionale e che il libro di Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943 (Nutrimenti, pp. 287, euro 18) ha il pregio di riportare alla luce grazie anche ad una importante documentazione per buona parte inedita fatta di foto, lettere, testimonianze dei sopravvissuti.
Già dal 1866, allorché Il Giornale di Udine teorizzava la necessità di eliminare gli slavi «col benefizio, col progresso e colla civiltà», il confine orientale dell'Italia divenne «mobile» e fino alla Seconda guerra mondiale si spostò sempre più ad est, tanto da evidenziare un processo di annessione coloniale di «molti territori storicamente non abitati da gente di nazionalità e lingua italiane».
Nel 1920 Mussolini affermò a Pola che l'Adriatico doveva essere liberato dagli Slavi. Nel luglio di quello stesso anno, con la complicità della polizia e il sostegno della stampa triestina filoitaliana, una squadra fascista incendiò il Narodni Dom , la casa del popolo degli sloveni e croati di Trieste, provocando la morte di due persone e la distruzione di uno dei più significativi simboli del patrimonio culturale delle componenti slave della città.
Il clamore di quell'attentato fu un campanello d'allarme per gli sloveni e i croati triestini, goriziani e istriani: ogni slavo diventava un possibile bersaglio della violenza razzista e fascista.
Nel marzo del 1921, tanto per fare un esempio, a Strunjan-Strugnano, un paese vicino a Capodistria, alcuni «squadristi fascisti spararono da un treno in corsa su un gruppo di bambini intenti a giocare, uccidendone due e ferendone gravemente cinque».
Con la presa del potere da parte di Mussolini, l'aggressività dei fascisti si trasformò in «leggi ben precise e provvedimenti di persecuzione culturale, economica e poliziesca». Alcuni sudditi italiani di nazionalità slovena e croata per non sfuggire alle persecuzioni accettarono di farsi «assimilare». Fra di essi «Giuseppe Cobol, italianizzato Cobolli, e poi Cobolli Gigli, che sarebbe diventato addirittura ministro dei Lavori Pubblici di Mussolini, e con lo pseudonimo di Giulio Italico insegnava canzoncine che minacciavano di gettare nella Foiba di Pisino chi non era un convinto italiano».
Diversa sorte toccava ai non assimilati: «dei 979 processi del Tribunale speciale ben 131 furono celebrati contro sloveni e croati della Venezia Giulia. Di 47 condanne a morte, pronunciate da questo tribunale fascista, ben 36 riguardavano sloveni e croati, e 26 furono eseguite (a Basovizza e Opicina, presso Trieste e al Forte Bravetta, a Roma)». Tutti questi avvenimenti costituirono le premesse storiche che, dopo l'aggressione nazifascista alla Jugoslavia e la sua spartizione (attraverso un piano che Alessandra Kersevan ritiene simile allo «smembramento della Jugoslavia che si è attuato negli anni Novanta»), condussero all'ipertrofia delle azioni sanguinarie, terroriste e liberticide dello Stato italiano.
Furono circa 200 mila i civili «ribelli» che, senza neanche un processo, morirono sotto il piombo dei plotoni di esecuzione italiani in Slovenia, «Provincia del Carnaro», Dalmazia, Bocche di Cattaro e Montenegro (di cui ha scritto Giacomo Scotti sul Manifesto del 4 febbraio 2005, «Così iniziò la stagione di sangue»).
Furono inoltre circa 100 mila i civili jugoslavi, fra sloveni, croati, serbi e montenegrini, che vennero internati nei lager italiani nel periodo che va dal 1941 all'8 settembre 1943, quindi anche dopo la caduta del governo fascista avvenuta il 25 luglio 1943 e durante i primi 45 giorni del governo Badoglio voluto da Vittorio Emanuele III. Tra i circa 100 mila internati ne morirono per fame e malattie 4141 nei campi e molti altri nei trasferimenti da un campo all'altro. I lager, sia quelli gestiti dall'esercito (in molti casi, a parte l'apparato di sorveglianza, simili a tendopoli recintate da filo spinato) che quelli gestiti dal ministero dell'Interno («spesso insediati in vecchi edifici, ex conventi, opifici o ville padronali, lontani dai centri abitati ma anche in mezzo al paese»), venivano organizzati come parte integrante di una strategia di guerra e di antiguerriglia.
I campi di concentramento per civili jugoslavi più tristemente famosi furono: Arbe-Rab (un'isola annessa dall'Italia il 18 maggio 1941 e oggi appartenente alla Croazia ); Gonars, un paese a sud di Udine; Visco, un comune della provincia udinese; Monigo, un comune della provincia di Treviso; Chiesanuova di Padova; Cairo Montenotte, un comune della provincia di Savona; Renicci in provincia di Arezzo e in riva al Tevere; Colfiorito, una frazione del comune di Foligno (PG); Fraschette di Alatri, campo gestito dall'autorità civile in provincia di Frosinone.
L'obiettivo di Benito Mussolini e del generale Mario Roatta, autentico ideatore di questo specifico circuito concentrazionario, era quello di rinnovare la politica di pulizia etnica e di annientare ogni possibile appoggio alla resistenza jugoslava.
Le modalità di organizzazione, le regole istituzionali interne e le condizioni di vita degli internati non erano diverse da quelle di tutti i circuiti dei sistemi segregativi del passato o attuali, in cui lo Stato spende poco denaro, supera le fasi giuridiche dei processi, accentua formalmente e sostanzialmente la differenziazione del «sistema dei diritti» tanto da creare un diritto extralegale e/o «emergenziale», sviluppa politiche razziste e inevitabilmente offre il massimo della sofferenza ai segregati non collaborazionisti.
I lager italiani per civili slavi erano divisi in due categorie fondamentali: i «repressivi», cioè soprattutto amici e parenti di presunti partigiani antifascisti, e i «protettivi», cioè i collaborazionisti. In genere i due gruppi erano dislocati in settori diversi di un medesimo lager. In ogni campo c'erano poi i «capi baracca» e le condizioni di vita degli internati variavano in base alla classe sociale di provenienza, alle condizioni di salute, alla possibilità o meno di acquistare delle merci, alla possibilità o meno di ricevere pacchi con viveri e indumenti da parenti o gruppi di solidarietà, alla loro eventuale funzione lavorativa, al sesso e all'età.
In generale l'alimentazione degli internati, oltre ad essere in media dimezzata rispetto a quella dei soldati, era caratterizzata da un sistema definito «fisso decrescente»: una quantità fissa di alimenti che decresceva quanto più si stava in basso nella gerarchia degli internati.
I collaborazionisti e i «capi baracca» erano quelli meglio alimentati. Dopo di loro, come avveniva nel campo di Gonars, venivano gli internati che lavoravano nel campo, i medici e gli infermieri, gli ammalati dell'infermeria e infine i non lavoratori, i ragazzi e i bambini. All'interno dei lager, la maggior parte degli internati mangiava solo un po' di brodaglia e un pezzetto di pane al giorno, non riceveva adeguate cure mediche e viveva nella sporcizia. L'affamamento era causa di precise direttive dei vertici del governo fascista, oltre che di numerose speculazioni commerciali di ditte private. «Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo», questo scriveva in un appunto del 17 dicembre 1942 il generale Gastone Gambara, l'allora comandante dell'XI Corpo d'Armata. Donne, bambini e anziani, stante questo scenario, morivano a migliaia di fame e malattie Morivano in silenzio e morendo facevano risparmiare altro denaro allo Stato. Il libro di Alessandra Kersevan ci ricorda tutto ciò. Emoziona e fa riflettere. Leggendolo si ha la sensazione di ascoltare le voci di donne, uomini e bambini che dai lager italiani del 1941-1943 urlano contro vecchie e nuove rimozioni della verità storica.

18/09/2008 Liberazione

Il Social Forum europeo sbarca nella Malmö postindustriale e di sinistra (e guarda al sindacato)

Checchino Antonini
Malmö (Svezia) - nostro inviato
Dalla Central stationen al Folkets Park, dove al tramonto viene inaugurato il Social forum europeo, non ci sono molti segni sui muri di quello che sta per accadere. Ma c'è un cammino costante di ragazzi con zaino e sacco a pelo e mappa della città dispiegata. Hanno addosso t-shirts inequivocabili e kefieh. A seguirli se ne scoprono provenienza e passioni.
A sei anni dal primo, che ospitò Firenze, il Social forum si rimaterializza tornando a Nord dopo l'esperienza ad Atene. E sette anni dopo il controvertice di Göteborg, poco prima di Genova, quando la polizia sparò ad altezza d'uomo mandando in coma un ventenne. Quell'agente, come i suoi colleghi del G8, l'avrebbe fatta franca ma ogni svedese, grazie a una vera commissione parlamentare sa che a causare gli incidenti fu proprio chi li avrebbe dovuti prevenire. Da allora è cambiata la tattica, la polizia svedese, pare, dialoghi di più e usi meno cavalli, cani e tute da robocop.
Il parco, appena fuori dal centro storico della città più meridionale della Svezia, sente risuonare musica pop e saluti in tutte le lingue, fino alla promessa di Catelene Passchier, segretaria della Ces, la "Cgil europea": «Il sindacato non permetterà che vengano cancellati i diritti dei lavoratori». Ce l'ha con la sentenza Laval (la ditta lettone che voleva praticare in Svezia il contratto del proprio paese a scapito delle leggi di Stoccolma: la corte europea le ha dato ragione) e certe direttive europee su orari e lavoro migrante. Questioni di cui si sentirà parlare molto nei 200 eventi del Fse. E magari, quello che sembrava un forum di attivisti venuti dall'Est e dal Nord, potrebbe rivelarsi come quello del ritorno del sindacato. Questo mi spiega la "veterana" italiana, Raffaella Bolini dell'Arci, lo stesso si augura Petter Larsson: «Che i nostri sindacati riescano a mettersi in rete con i partner europei. E che il movimento scandinavo ritrovi forza e visibilità».
Al quarto piano di un palazzo d'uffici nella Bergsgatan, Larsson, quarantanni, si dá da fare per mandare avanti il press center del Fse di cui è portavoce. Vive qui da dieci anni, scrive da free lance nelle pagine culturali di un grosso tabloid. Non è attivista ma suo fratello è deputato del partito della sinistra (Vänsterpartiet, socio della Sinistra europea). Petter, da 20 anni, è vicino al movimento ma l'ha seguito scrivendone con un certo distacco da Firenze, Parigi, Londra, Mumbai, Porto Alegre, Nairobi. Ora non poteva restare a guardare. E come lui piú di mille tra volontari e traduttori del Nordic organizing comittee, il Noc (139 organizzazioni tra cui, più visibili, Attac, il sindacato trasporti e gli Amici della terra).
Malmö, terza città della Svezia, ha 270mila abitanti. Qui governa salda la coalizione di verdi, sinistra e socialdemocratici malgrado la debacle di Stoccolma. Era una vera città proletaria, ricorda Petter, ma già dagli anni 70, l'industria navale ha delocalizzato in Corea. Dagli anni 90 il ponte con la Danimarca - in mezz'ora sei al centro di Copenhaghen - poi l'arrivo dell'università, sembrano aver riattivato una città in crisi. Simbolo del passaggio al post-industriale, i 190 metri della la torre Torso, la più alta della Svezia, costosissima opera di Calatrava dove vivono i ricchissimi occupando il quartiere che era dei cantieri navali. Racconta ancora Peter che d'estate lì sotto c'è una spiaggia pubblica che viene invasa da bagnanti che vengono dalla periferia. Gli stessi giovani svedesi che, grazie al ponte, vanno a lavorare in Danimarca creando problemi al sindacato di quel paese perché chiedono meno dei coetanei danesi. La popolazione, ammette Larsson, non ne sa molto del Fse, «se ne accorgeranno con i media e la manifestazione di sabato pomeriggio». Decisivo, invece, il ruolo del comune per vincere la concorrenza di Copenaghen: ha dato 2 milioni e mezzo di corone (370mila euro circa). Finora i gruppi di attivisti si incontrano nei caffè gestiti dai loro compagni, non esiste nulla di simile a un centro sociale. Più vivace di quella politica, grazie all'ateneo e al welfare, la scena culturale che si arricchisce nei giorni del forum di 400 tra concerti, dibattiti, proiezioni, performances. Malmö parla già 100 lingue col suo 15% di cittadini migranti di 170 etnie che urtano la sensibilità di un partito populista in forte ascesa.
Buona la partecipazione italiana con delegazioni visibili di Arci, Cgil, Cobas, Sdl, Rifondazione, ecc... Oggi, tra l'altro, è previsto l'arrivo del segretario Prc, Paolo Ferrero. «Domenica - annuncia Piero Bernocchi - dall'assemblea dei movimenti sociali dovrebbero partire proposte per mobilitazioni in occasione del sessantesimo della Nato, del G8 alla Maddalena, del summit sul clima previsto a Copenaghen». Vittorio Agnoletto, eurodeputato Prc, chiede che parta anche una campagna contro le direttive Ue su orari e lavoro migrante. L'ex portavoce del Gsf si aspetta che questo forum «faccia il salto: che modifichi la sua struttura e sia in grado di organizzare campagne e sceglierne le priorità».

18/09/2008 liberazione

«Il capitalismo si salverà anche da questa crisi e sarà l'ennesima purga sul lavoro»

Claudio Jampaglia
Milano
Impossibile inseguire la cronaca per dire cosa sia l'ultima fiammata della crisi della finanza globale col fallimento della banca d'affari Lehman & Brothers con il salvataggio del governo Usa del colosso assicurativo Aig e coi "rumori" di prossimi crack (la svizzera Ubs? La britannica Hbos? Goldman Sachs?). Più difficile ancora dire cosa sarà a medio e lungo termine. Il contagio lavora, l'epicentro sono gli Usa, ma se sarà o meno la fine del capitalismo finanziario è difficile prevederlo. Bisognerà tornare a studiare bilanci storici, interventi pubblici e cambiamenti nel sistema di regolazione. Le trimestrali con cui aziende e consulenti certificano la redditività di borsa, non bastano più. Anzi la prima vittima di questa crisi dovrebbe essere proprio la logica del ritorno finanziario immediato, in barba ai fondamentali, alle tendenze, alla analisi di mercato industriali...
Qualsiasi previsione è quindi da prendere con le pinze, anche se alcune tendenze ci sono già. Sono figlie della storia di questi anni e di chi le aveva lette. Tra questi, Riccardo Bellofiore, economista, direttore del dipartimento di Scienze economiche dell'università di Bergamo, che da anni studia e denuncia il ciclo dell'indebitamento americano, spinto e sostenuto dalle stesse autorità chiamate a spegnere oggi l'incendio e retto su quella che forse ormai chiamavamo la finanziarizzazione dell'economia.

L'America in 24 ore vara il suo più grande intervento pubblico di salvataggio di un'azienda privata. Paura del contagio con l'economia reale (Aig oltre ad assicurare aerei, navi e quant'altro, detiene una grande fetta dei redditi pensionistici e contributivi dei lavoratori Usa) o ritorno a una politica anticrisi organica?
Questa crisi ha la sua origine nelle dinamiche perverse dei mercati finanziari. Dal suo esplodere nel luglio-agosto del 2007 i commentatori, a destra come a sinistra, si sono divisi tra chi minimizzava e chi prevedeva catastrofi imminenti. In genere, i primi sottolineavano come i bilanci delle banche e delle imprese fossero floridi: il debito era concentrato sul settore delle famiglie, e il cosiddetto effetto leva (l'esplosione dei crediti concessi rispetto al capitale degli istituti finanziari coinvolti) si poteva sperare riguardasse soltanto una sezione, sia pure anormalmente dilatata, del mondo finanziario. I secondi ricorrevano all'esempio della Grande Crisi degli anni '30, o alla Grande Deflazione del Giappone degli anni '90: nel primo caso, con lo sgonfiamento della borsa e la contrazione dell'offerta di moneta, che si tradussero in un crollo della domanda aggregata e della produzione, e in una esplosione della disoccupazione e della povertà. A giocare contro la tesi della gravità della crisi giocava anche la speranza in un possibile decoupling, uno sganciamento dell'economia mondiale, e in essa dell'Europa, dall'unica locomotiva americana. Per un po' di tempo la tesi ha avuto una sua plausibilità: gli Stati Uniti hanno rallentato vistosamente, ma le esportazioni europee (non solo tedesche, anche quelle italiane) hanno retto. La ragione sta nel fatto che si poteva esportare in aree meno toccate dalla crisi, nonostante l'euro allora si rafforzasse: mi riferisco alla Russia o ai paesi Opec sostenuti dalla crescita del prezzo del petrolio, alle economie asiatiche e in particolare la Cina, che cresceva attorno al 10%, alle economie emergenti dell'America Latina. Tutto ciò, col tempo, è svanito. Col tempo, perché questa è una crisi non solo grave ma nuova, e la sua natura ne fa una crisi al rallentatore. È una crisi non di liquidità, ma di insolvenza. Prima o poi si traduce non solo in uno sgonfiamento dei valori borsistici ma anche nella contrazione del credito. Anche se la banca centrale immette liquidità e abbatte il tasso di interesse di base, i prestiti si razionano e i premi al rischio crescono. Visto che non si sa bene dove i rischi siano concentrati, data la natura opaca dei nuovi strumenti finanziari, il cosiddetto effetto domino si produce lentamente, e si rivela a ondate. Per questo i vincoli finanziari si rivelano stringenti per gli operatori solo dopo un po' di tempo. Benché lento, il processo si rivela però sempre più drammatico e grave. Gli istituti finanziari coinvolti, per ridurre la leva finanziaria e aumentare il capitale, devono liquidare attività del loro bilancio: ma visto che questo lo fanno contemporaneamente in tanti, l'uscita dall'indebitamento determina una deflazione dei prezzi delle attività finanziarie, e anche chi credeva di essere a posto entra in crisi. I debitori ultimi, i consumatori, devono rientrare dai debiti, e questo fa cadere la domanda. Visto che i prestiti concessi a consumatori e alle imprese non possono che ridursi, dopo un altro po' di tempo cade la produzione reale e l'occupazione, e di seguito anche l'investimento e il consumo. Se questo è il quadro di fondo, le ragioni dell'intervento sull'Aig sono però, per ora, altre. Così come per il salvataggio di Bear Stearns a marzo e la nazionalizzazione di Fanny Mae e Freddie Mac pochi giorni fa, qui ha giocato la considerazione delle dimensioni e delle interconnessioni finanziarie, insomma il timore dell'effetto domino e dell'aggravarsi del deceleratore finanziario.

E perché le autorità non hanno deciso e fatto lo stesso per Lehman Brothers?
Questo è un punto interessante. E credo non abbia pesato solamente il timore dell'azzardo morale o di oneri troppo gravosi sul bilancio pubblico. Conta, piuttosto, quanto già sostenevo in un'altra intervista a Liberazione. Abbiamo a che fare con interventi pienamente politici, e dunque discrezionali. In questo caso, senz'altro, hanno pesato gli effetti prevedibili su mutui immobiliari, sulle pensioni, e simili, a cui ti riferisci. Ma è un intervento diretto e politico, dove la Fed accetta di sostenere l'economia con collaterali fatti di strumenti finanziari o azioni dal valore dubbio o inconsistente, e dove ha la sicurezza dell'intervento in seconda battuta del Tesoro che li può trasformare a tempo debito in titoli di stato. È il costituirsi, a tentoni, per tentativi ed errori, di una nuova politica monetaria in un nuovo mondo. Nel frattempo, lo sganciamento, il decoupling, si è sciolto come la neve. Era dubbio che la globalizzazione potesse funzionare come volano quando l'economia mondiale andava bene, e non anche in senso depressivo nella crisi. Per questo assistiamo all'Europa che sta cadendo in recessione, all'America Latina che traballa, e alla Cina che rallenta al punto da far intervenire in senso espansivo la Banca Centrale cinese anche se il tasso di crescita è ancora elevato. Il tutto si aggraverà con l'esaurirsi della timida politica espansiva di Bush di inizio anno e basata su tagli alle tasse.

L'epicentro della crisi è la finanza Usa, perché? È la fine della turbo-finanza che rende qualsiasi "cosa" (aziende come materie prime) ingranaggio della speculazione al di là di qualsiasi considerazione economica reale?
È la crisi della nuova finanza, senz'altro. Si è detto molto nei mesi passati dei caratteri patologici dei derivati, che invece di proteggere dal rischio lo diffondono e nascondono, per cui non ci insisterò più di tanto. Sottolineiamo un altro punto, collegato. Nel nuovo sistema, che vede al centro proprio quelle banche di investimento che oggi vediamo crollare l'una dopo l'altra, gli istituti di credito non guadagnano selezionando gli imprenditori, ma grazie alle commissioni sulla collocazioni di strumenti finanziari di cui, appena creati, ci si disfa rapidamente. Quando le cose vanno bene, la riduzione del capitale rispetto ai crediti concessi perseguita dagli operatori finanziari non è affatto irrazionale: è il sistema ad essere malato. Di qui la riduzione del premio al rischio, la sopravvalutazione dei debitori, e così via. Questo mondo sembra essere finito. Ma bisogna intendersi. Questa esplosione della turbo-finanza non è separabile dall'economia reale buona. Tra il 2003 e il 2007 vi è stato un boom mondiale reale che non si può trascurare, e che si basava su questa cartaccia. E il suo perno ultimo era senz'altro costituito dagli Stati Uniti e dal gonfiamento del debito delle famiglie. Come era stato per il boom della borsa, la bolla immobiliare e poi l'esplosione dei subprime per sostenerla hanno creato le condizioni per far crescere la domanda di consumi "autonoma" dal reddito, in forza di quello che viene chiamato un "effetto ricchezza". Il paradosso è che questo modello è l'altra faccia di bassi salari e precarietà. Se i consumi non crescono via salario, possono crescere via indebitamento: bassi salari e alto indebitamento sono un fattore potente di precarizzazione (e viceversa). Il problema che ci si trova davanti è dunque questo per chi gestisce il sistema: come far proseguire una situazione di bassi salari e precarietà, senza affogare nella melma della nuova finanza, e senza un ristagno della domanda. Credo che si cercherà di recuperare i nuovi strumenti finanziari, in forma riveduta e corretta, con una più stringente regolazione. Ma intanto c'è da affrontare una doppia sfida: come intervenire nella congiuntura, e come ricostituire un nuovo meccanismo di regolazione. Come passare dalla "convenzione" Greenspan, che ha retto dal 1987 al 2007, a una nuova convenzione. Bernanke in un certo senso si trova in una realtà che conosce, sia pure solo sulla carta. È un esperto di Grande Crisi, di deflazione giapponese, di acceleratore finanziario. È un fautore del inflation targeting, ma sa che espansione e depressione sono fasi diverse e richiedono politiche diverse: oggi l'inflazione non lo preoccupa. La colpa che gli viene imputata è di aver creduto, come Greenspan, che sulle bolle speculative non si può intervenire. Ma nella crisi, dopo un ritardo iniziale, è stato disposto a mosse rapide, decise e innovative. Ha abbattuto i tassi di interesse a gennaio in meno di un mese, e ora sta navigando in mare aperto per definire delle politiche di salvataggio che, volenti o nolenti, imporranno alla politica un nuovo attivismo. Insomma, la crisi si aggraverà nel breve periodo, ma non sottovaluterei né l'inventiva del capitale né le risorse di una politica di riforma dall'alto nel medio periodo: non sanno forse di farlo, ma lo fanno.

L'Europa sembra ancora più conservatrice degli Usa, pompa liquidità e insiste nel contenimento del suo ruolo al mandato esclusivamente di stabilizzazione monetaria. Eppure diversi governi europei sembrano chiedere un intervento anti-crisi più determinato. C'è un problema di governance o di cieca fedeltà ideologica?
È vero, ma solo in parte. Trichet ha detto che al di là dell'Atlantico avrebbe fatto le stesse politiche di Bernanke. In un certo senso c'è da credergli. L'ossessione anti-inflazionistica viene alla Banca Centrale Europea dal timore di un aumento dei salari. Il che appare un po' buffo. Tra i cambiamenti dell'ultimo decennio o giù di lì vi stanno due grandi novità rispetto all'ortodossia dominante in economia sino a pochissimo tempo fa. Le banche centrali provvedono ormai liquidità ai mercati con molta maggiore liberalità di quanto volesse il vecchio monetarismo (con termine tecnico, si dice che l'offerta di moneta è "orizzontale"). E infatti la Bce è stata molto interventista a sostenere i mercati da questo punto di vista, come se non più degli Stati Uniti. La seconda novità è che la cosiddetta curva di Phillips (che lega disoccupazione e dinamica dei salari) è divenuta "piatta": quando si riduce la disoccupazione, i salari aumentano poco o niente. E invece, la Bce sembra voler continuare a combattere con ferocia la vecchia battaglia. Il problema in realtà è che teme un effetto di ritorno sul costo del lavoro dell'inflazione dall'aumento del prezzo delle materie prime, del petrolio, degli alimentari, e così via, che falcidiano i salari: difficile, ma non impossibile, visto che in Europa il sindacato è sconfitto ma esiste ancora. La spinta verso un intervento anti-crisi dal lato della politica degli Stati europei è dunque comprensibile, ma non dice granché in sé. Come sai, penso che il liberismo sia qualcosa che non esiste, e trovo sbagliato intestardirsi a ragionare in termini di liberismo verso statalismo. La nuova economia, la bolla immobiliare, la risposta alle crisi del 2001 e a questa, per non riandare indietro a Reagan, sono avvenute in un pieno di politica. E non è necessario richiamare la critica al mercatismo di Tremonti per far capire che il neoliberismo tutto è meno che anti-interventista, a suo modo beninteso. Quello che ci deve sempre interessare è capire le trasformazioni dell'interventismo. Il problema è dunque quale intervento politico, non se questo ci sarà o meno . Non sono mai stato crollista, né credo all'anarchia del mercato. A una crisi del genere si dovrebbe rispondere diversamente, è chiaro: con una espansione coordinata, basata sulla domanda interna, con un controllo della finanza, e, a ben vedere, con una riqualificazione dell'offerta. Perché questo è il messaggio forte e chiaro che ci viene dalla crisi energetica e dalla crisi alimentare, come dalla crisi dei consumi. È chiaro che in questo contesto il problema lo si può porre, non lo si può neanche iniziare a risolvere. Ma il problema esiste. Ed è "il" problema, senza cui per di più non esiste sinistra. Dal lato capitalistico, le ultime mosse, da Bear Stearns a Lehman Brothers, e oltre ci parlano di una politicizzazione crescente dell'offerta di credito, se si vuole di una sua centralizzazione ulteriore, il che può preludere in un futuro non troppo lontano a scelte su nuovi settori su cui puntare. Non è la prima volta: la nuova economia viene dalle politiche statuali Usa tra ottanta e novanta, il boom fondato su immobili e subprime dalla politica monetaria di Greenspan.

Disastro o una salutare doccia fredda che riporterà l'economia più verso il reale e meno verso il virtuale finanziario?
È prevedibile, come ho anticipato, una crisi lunga e lenta: ma non senza termine. Il punto è che però una finanza più regolata e meno speculativa si accompagnerà a un credito più razionato e più costoso, e a un governo sulla composizione della produzione sempre più disegualitario e forse sempre più arbitrario. I commentatori di destra o moderati insisteranno sulla "regolazione" della finanza come panacea, e la regolazione certo non fa male; quelli della sinistra ci ricorderanno, e a ragione, che pagherà come sempre il lavoro. Non mi aspetto un degrado generale omogeneo, ma una frantumazione crescente. Il che significa che questa crisi, come ogni ristrutturazione significativa (e se non ci sarà un approfondimento nel breve della crisi, non ci sarà quella ri-regolazione di cui il capitale ha bisogno) agirà come una purga sull'apparato produttivo e sull'economia reale, come già ha fatto in piccolo la crisi del 2001-2004, che ha visto anche da noi innovazioni di prodotto e buoni risultati per medie imprese multinazionali, in un contesto però di grande fragilità. E la crisi è un ottimo alibi per sfondare sul terreno sindacale e del mondo del lavoro.

18/09/2008 liberazione