giovedì 15 maggio 2008

La democrazia partecipata è oggi la vera innovazione

di Giovanni Russo Spena

Sulle pagine dell'ottimo settimanale "Carta" è stata aperta, da un documento preparatorio di un'assise nazionale "per un'altra politica", una discussione di grande interesse sulla concezione stessa del partito, partendo dalle aggregazioni tematiche e dalle reti locali. Il tema può essere declinato anche in termini più complessivi, con un tratto zapatista: come si ricostruisce uno spazio pubblico dentro e contro la globalizzazione liberista? Soprattutto ora, in un contesto in cui, come si evince anche da parole ed atti del governo Berlusconi, la cosiddetta "crisi della politica", lungi dall'essere critica del potere costituito, è diventata alibi per l'abbattimento del costituzionalismo democratico. Per quanto riguarda, poi, le sinistre (noi stessi) essa è degradata in una drammatica, totale crisi della rappresentanza: scissione, sconnessione tra domande sociali, conflitto e progetto politico.


Il negativo esito elettorale nostro è figlio anche di questa identità mutilata, di questa assenza di un punto di vista sulla società, di questa crisi della rappresentanza. Il PD ha tentato di dare ad essa una risposta plebiscitaria, leaderistica, costruendo (con le primarie) il leader prima del programma e prima del partito. Finendo con l'accelerare, in tal modo, la crisi stessa. Guai se, per debolezza dell'impianto analitico e per errori evidenti nella proposta politica, cadessimo anche noi nella medesima tentazione. Il cortocircuito plebiscitario non può sostituire un'assenza di proposta politica; esso rischia d travolgere la democrazia organizzata e la regola statutaria, che è alla base della comunità; e sono certo che la delega all'uomo solo al comando non aiuta a ricostruire una ricerca collettiva ed un rapporto equo e paritario tra partito "in movimento" e rete plurale dell'associazionismo. Anzi, rischia di creare disastri; dalla Comune di Parigi alla criticità attenta e dolente di Rosa Luxemburg le regole e le garanzie democratiche (forma del mandato, rappresentanza non delegata, revocabilità, ecc.) sono state, dalla sinistra marxista libertaria, considerate sostanza politica, non non puro orpello formale. La democrazia partecipata è oggi la vera innovazione. Mi piacerebbe che anche il mio amico Vendola ne tenesse conto. Mi interessa, invece, proseguire il lavoro attento, paziente, basato sulla ricerca del consenso più ampio, che è stato alla base della formazione del paradigma politico ed organizzativo della Sinistra Europea. E' evidente che l'organizzazione ha in sé, in quanto tale, il rischio dell'oligarchia; ciò impone che il superamento del partito novecentesco comporti forti correzioni e garanzie contro i rischi immanenti di centralizzazione e separatezza dalla società. Se si esclude una organizzazione verticale (di tipo tematico: partito del lavoro, partito dei diritti, partito dell'ambiente) che pare, a me, troppo settoriale e carente dei nessi politici e strutturali, l'unica organizzazione politica che mi pare strumento utile per percorsi alternativi e processi anticapitalisti è il coordinamento di un sistema a rete che esalti l'orizzontalità, la confederalità "dal basso", il mutualismo, il "saper fare" società. Organizzazione del conflitto, mutualità, cooperazione (nel significato che ad essa dava Marx), mi sembrano i compiti e le funzioni, come base fondativa di un punto di vista "altro", di una autonoma visione del mondo della sinistra anticapitalista.

Concordo pienamente con la raffinata e colta ricerca di Pino Ferraris: " assieme al conflitto, dopo lunga eclissi, riemergono le solidarietà, il far da sé cooperativo, la pratica dell'obiettivo. Si va oltre il movimentiamo, ci si avvicina alla richiesta di un'altra forma di espressione della società politica". Mi sembra questo il nodo vero, nella teoria, nelle pratiche, nella concezione dell'organizzazione. Siamo, in parte, dentro la riflessione della I Internazionale? E' un bene, credo. Innovare vuol dire ripensare seriamente, dalle fondamenta. Non per inseguire modelli, ma per rielaborare criticamente la memoria storica del movimento operaio. E' essenziale, ad esempio, rileggere criticamente, superando liturgie terzinternazionaliste, la vicenda (aspra e culturalmente ricca) del movimento operaio e socialista a cavallo tra la fine dell'Ottocento ed il Novecento. Prevalse, con il "Programma di Erfurt", il manifesto del socialismo statalista di stampo teutonico. L'esperienza belga, quella bretone, quella del federalismo orizzontale e del mutualismo furono sconfitte. Ma ora, sui fallimenti, sulle macerie, è possibile, senza inibizioni, innovare davvero, ricercare davvero. Ricominciare il cammino?
Alla fin fine, siamo sempre nani sulle spalle dei giganti…

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