lunedì 7 aprile 2008

Pacifisti, cioè di sinistra

il manifesto 31.03.2008
Pietro Ingrao: «Io accuso la lentezza e la fragilità con cui affrontiamo la questione guerra»
Il nostro paese è stato coinvolto in conflitti offensivi. Silenzio dai custodi della Costituzione e il popolo non si è ribellato. La pace sembra impossibile o inutile. Invece è il bene primo
Tommaso Di Francesco

«Coprifuoco a Baghdad». Il titolo della notizia potrebbe essere datato all'aprile di cinque anni fa, nelle ore sanguinose dell'aggressione angloamericana all'Iraq già devastato da dieci anni di embargo. Invece no, sono i giorni e le ore che attraversano adesso il nostro quotidiano. La guerra è una coazione a ripetere, l'asse ormai di una politica bipartisan che ne fa la prova costituente della capacità di governare il mondo.
Ci resta addosso l'eredità della guerra, quasi un fatto generazionale. Forse Barak Obama e i democratici vinceranno le elezioni americane. Ma cambierà qualcosa sulla politica internazionale e in tema di «interventismo umanitario», visto che Gorge W. Bush lascia in eredità un bilancio della difesa di più di 600 miliardi di dollari che supera perfino quello della Guerra fredda? E ad ogni conferma della guerra il movimento della pace, già sorprendente «potenza mondiale», entra nel cono d'ombra della sua impotenza e dei suoi troppi limiti. Come è evidente il limite rappresentato dal tentativo, per gran parte fallito, di condizionare e spostare sui contenuti della guerra e della pace l'agire del governo Prodi. Che si è dissolto e, poi, abbiamo scoperto dalle parole di lancio del Pd di Walter Veltroni che quel tentativo della sinistra era «solo zavorra». Mentre cresce il rischio, concreto, dell'astensionismo di sinistra anche a causa dei nodi non sciolti della guerra e della pace, come non parlare di tutto questo con l'uomo che considera la lotta contro la guerra l'impegno più più alto e necessario per un nuovo radicamento della sinistra? Incontriamo Pietro Ingrao a casa sua in via Balzani, dove vive oramai da più di cinquant'anni salvo le dolci estati che trascorre al paese natio. Pietro proprio oggi (ieri per chi legge) compie 93 anni: tanti auguri. Ci riceve nella stanza dove usa conversare con familiari, amici e compagni.
E' una stanza luminosa, le pareti coperte di libri ed immagini dove fanno spicco un ritratto di Laura e l'amico forse più caro di Pietro, Luigi Nono, così presto sottratto dalla morte alle sue straordinarie invenzioni musicali, e accanto a essi disegni o opere di Guttuso e Turcato. C'è poi un piccolo ritratto d'epoca: su una tribuna si vede un giovanotto (un pischelletto direbbero a Roma) magro come un chiodo; e a fianco di lui, in attesa di prendere la parola Togliatti. Noi però vogliamo parlare con lui non della guerra che aveva incendiato il mondo nel primo mezzo secolo, ma di quella che era tornata dopo, e ancora continua oggi: quasi da sembrare eterna. E avanziamo la domanda amara che più ci assilla.
C'è un evento che dura da sempre e sembra incancellabile dalla via degli uomini: la guerra, l'urto armato. C'è un libro piccino, che abbiamo amato molto anche noi che siamo venuti dopo di te, «Le lettere dei condannati a morte della Resistenza». Lo leggemmo come una straordinaria speranza. Prometteva di uscire da una catastrofe ed evocava un cambiamento radicale per i sopravvissuti. Invece la pace fu breve: come di un solo istante. E ancora oggi continua l'uccidere di massa: e non in un lembo sperduto della terra, ma in fasce cruciali del globo. E attori dell'urto sono le più grandi potenze mondiali. Perché? E perché così pochi nel mondo si pongono questa domanda?
Perché, anche dopo l'affossamento di Hitler e Mussolini e la disarticolazione degli spaventosi apparati di morte che quei due dittatori avevano apprestato, il confronto armato non è mai cessato nel globo: sia come guerre in atto in un grande continente come l'Asia, sia come costruzione di enormi apparati militari, in terra, in cielo e in mare.
Ti riferisci al conflitto che si accese in Vietnam ..?
Sì. E penso alla straordinaria opera di «supplenza» che svolsero gli Stati uniti intervenendo in guerra in Vietnam, ma anche alla guerra di Corea e allo scontro fra sovietici e cinesi sull'Ussuri. Insomma al fatale sviluppo che dalle guerre napoleoniche ha portato all'incendio dell'Asia sconfinata. Quanto al nostro paese sono stati cancellati arbitrariamente vincoli costituenti: nonostante l'art. 11 della Costituzione, l'Italia è stata coinvolta in conflitti che non avevano alcun carattere difensivo. E i custodi della Costituzione hanno taciuto. E non c'è stata nemmeno ribellione di popolo. La pace sembra impossibile o inutile. E invece non dovrebbe essere il bene primo?
Ci sono anche gli aspetti di politica interna: aumento della spesa militare in finanziaria 2007; nuove e pericolose servitù militari; adesione allo scudo di Bush; presenza militare in Afghanistan in zone ormai di guerra ma «non in guerra», e purtroppo inseriti nei comandi internazionali che determinano la guerra dei raid aerei e i suoi obiettivi in un territorio lacerato dove è miscela esplosiva la commistione d'intervento civile e militare. Per quanto possa essere avaro, c'è un ordinamento di fatto del mondo: al centro di questo sistema regolativo c'è l'atto armato, sviluppato in modo dominante: in terra, in cielo e in mare.
È un agire che si vale di un mezzo straordinario: l'uccidere di massa. Questo specifico agire - dopo la sconfitta dell'Unione sovietica - ha oggi un centro focale che sono gli Stati Uniti d'America. E tale è il ruolo regolatore e dominante con cui gli Usa intendono questo potere armato, che ad esso hanno dato persino un alto e fatale compito di prevenzione: sicché dalla guerra motivata sempre (o quasi) in termini di difesa si è passati - da parte della grande potenza americana - alla evocazione della guerra preventiva (Bush). E prevenire la guerra altrui comporta di scatenare in anticipo la guerra propria: cioè realizzare l'uccidere di massa in terra altrui. Come ha fatto Bush in Iraq, e per tutto un periodo anche l'Italia, stracciando appunto l'articolo 11 della Costituzione repubblicana.
Tu guardi ora alla tragica vicenda mediorientale. È vero però che in quel lembo del mondo si sono intrecciati - in modo che sembra inestricabile - storie e conflitti di fedi e di popoli: dalla questione ebraica alle lotte interarabe alla potenza laica turca. E su tutto sono scattati i riflessi obbligati dell'enorme questione asiatica. Su tali eventi l'incidenza delle assemblee internazionali - dalle Nazioni unite all'assemblea d'Europa - è stata quasi nulla. Tale è il mondo su cui si è fatto largo l'impero americano. In fondo l'Italia è stata un breve satellite.
Conosciamo tu ed io le dipendenze pesanti che - ancora dopo la fine del nazismo - hanno segnato il cammino del nostro paese, e quanto hanno inciso su di esso persino le grandi potenze spirituali. Eppure c'è stata una sottovalutazione, una carenza grave anche dal mondo italiano: e non sta solo nella sciagurata partecipazione alla guerra in Iraq. Sta nella lentezza e fragilità con cui abbiamo affrontato la questione in sé della guerra: dell'uccidere di massa. Certo: si trattava di ripensare la sostanza e l'insieme dell'agire politico, e quindi anche del soggetto proletario: dei processi della sua liberazione. E invece pesava e agiva ancora dentro di noi l'eredità del leninismo.
Tu sai però che larghe fasce del popolo di sinistra pensano: devo aiutare Veltroni altrimenti vince Berlusconi. E Veltroni è chiaramente un «moderato». Dunque: evitare il peggio. Come rispondi?
Penso che se si affloscia il soggetto di classe, il soggetto proletario, non c'è Walter Veltroni che tenga. Sbiadisce la grande questione per cui nel secolo milioni di lavoratori sono scesi in politica: la liberazione del lavoro. E almeno sino a questo tardo momento della mia lunga vita non rinunzio a questa grande speranza. Non sopporto l'ipocrisia di versare lacrime sugli operai assassinati della Thyssen e poi di non ingaggiare lotta contro i loro assassini. Quei caduti non possono essere dimenticati nel momento in cui il popolo italiano è chiamato a esprimere con il voto sua volontà politica: e a indicare i membri delle future assemblee parlamentari: quindi a eleggere poteri decisivi nella vita del nostro paese.
C'è oggi una discussione anche pesante su chi deve affrontare questi problemi e assumere la guida del paese. E ci sono italiani che accettano l'opzione per Veltroni ritenendolo più in grado di impedire una vittoria di Berlusconi.
Ho rispetto per Veltroni, ma lo considero dichiaratamente un moderato. E invece anche per la lotta contro Berlusconi io ritengo essenziale la forza di una sinistra di classe. Perciò sostengo i candidati della Sinistra e invito a questa scelta. E nel tempo del voto ricordo che prima di ogni altro è in questo modo che si definiscono una parte essenziale dei poteri.
Il proletariato italiano ha alleati potenziali, nel nostro paese e nel mondo, molto più di quanto pensi un Berlusconi. E le organizzazioni politiche di classe - se si uniscono - possono dilatare fortemente la loro capacità di influenza. Noi però soffriamo di un difetto grave: siamo divisi e usiamo vocabolari frantumati. Unire questa sinistra di classe: nelle speranze e nei programmi. Tale è il mio auspicio ardente. Tale è il modo alto di ridare voce, nel nostro sentire e agire, agli assassinati della Thyssen e a quei due bambini sprofondati nel fondo di un pozzo, senza più nemmeno la voce per un grido.

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