lunedì 22 settembre 2008

«Il capitalismo si salverà anche da questa crisi e sarà l'ennesima purga sul lavoro»

Claudio Jampaglia
Milano
Impossibile inseguire la cronaca per dire cosa sia l'ultima fiammata della crisi della finanza globale col fallimento della banca d'affari Lehman & Brothers con il salvataggio del governo Usa del colosso assicurativo Aig e coi "rumori" di prossimi crack (la svizzera Ubs? La britannica Hbos? Goldman Sachs?). Più difficile ancora dire cosa sarà a medio e lungo termine. Il contagio lavora, l'epicentro sono gli Usa, ma se sarà o meno la fine del capitalismo finanziario è difficile prevederlo. Bisognerà tornare a studiare bilanci storici, interventi pubblici e cambiamenti nel sistema di regolazione. Le trimestrali con cui aziende e consulenti certificano la redditività di borsa, non bastano più. Anzi la prima vittima di questa crisi dovrebbe essere proprio la logica del ritorno finanziario immediato, in barba ai fondamentali, alle tendenze, alla analisi di mercato industriali...
Qualsiasi previsione è quindi da prendere con le pinze, anche se alcune tendenze ci sono già. Sono figlie della storia di questi anni e di chi le aveva lette. Tra questi, Riccardo Bellofiore, economista, direttore del dipartimento di Scienze economiche dell'università di Bergamo, che da anni studia e denuncia il ciclo dell'indebitamento americano, spinto e sostenuto dalle stesse autorità chiamate a spegnere oggi l'incendio e retto su quella che forse ormai chiamavamo la finanziarizzazione dell'economia.

L'America in 24 ore vara il suo più grande intervento pubblico di salvataggio di un'azienda privata. Paura del contagio con l'economia reale (Aig oltre ad assicurare aerei, navi e quant'altro, detiene una grande fetta dei redditi pensionistici e contributivi dei lavoratori Usa) o ritorno a una politica anticrisi organica?
Questa crisi ha la sua origine nelle dinamiche perverse dei mercati finanziari. Dal suo esplodere nel luglio-agosto del 2007 i commentatori, a destra come a sinistra, si sono divisi tra chi minimizzava e chi prevedeva catastrofi imminenti. In genere, i primi sottolineavano come i bilanci delle banche e delle imprese fossero floridi: il debito era concentrato sul settore delle famiglie, e il cosiddetto effetto leva (l'esplosione dei crediti concessi rispetto al capitale degli istituti finanziari coinvolti) si poteva sperare riguardasse soltanto una sezione, sia pure anormalmente dilatata, del mondo finanziario. I secondi ricorrevano all'esempio della Grande Crisi degli anni '30, o alla Grande Deflazione del Giappone degli anni '90: nel primo caso, con lo sgonfiamento della borsa e la contrazione dell'offerta di moneta, che si tradussero in un crollo della domanda aggregata e della produzione, e in una esplosione della disoccupazione e della povertà. A giocare contro la tesi della gravità della crisi giocava anche la speranza in un possibile decoupling, uno sganciamento dell'economia mondiale, e in essa dell'Europa, dall'unica locomotiva americana. Per un po' di tempo la tesi ha avuto una sua plausibilità: gli Stati Uniti hanno rallentato vistosamente, ma le esportazioni europee (non solo tedesche, anche quelle italiane) hanno retto. La ragione sta nel fatto che si poteva esportare in aree meno toccate dalla crisi, nonostante l'euro allora si rafforzasse: mi riferisco alla Russia o ai paesi Opec sostenuti dalla crescita del prezzo del petrolio, alle economie asiatiche e in particolare la Cina, che cresceva attorno al 10%, alle economie emergenti dell'America Latina. Tutto ciò, col tempo, è svanito. Col tempo, perché questa è una crisi non solo grave ma nuova, e la sua natura ne fa una crisi al rallentatore. È una crisi non di liquidità, ma di insolvenza. Prima o poi si traduce non solo in uno sgonfiamento dei valori borsistici ma anche nella contrazione del credito. Anche se la banca centrale immette liquidità e abbatte il tasso di interesse di base, i prestiti si razionano e i premi al rischio crescono. Visto che non si sa bene dove i rischi siano concentrati, data la natura opaca dei nuovi strumenti finanziari, il cosiddetto effetto domino si produce lentamente, e si rivela a ondate. Per questo i vincoli finanziari si rivelano stringenti per gli operatori solo dopo un po' di tempo. Benché lento, il processo si rivela però sempre più drammatico e grave. Gli istituti finanziari coinvolti, per ridurre la leva finanziaria e aumentare il capitale, devono liquidare attività del loro bilancio: ma visto che questo lo fanno contemporaneamente in tanti, l'uscita dall'indebitamento determina una deflazione dei prezzi delle attività finanziarie, e anche chi credeva di essere a posto entra in crisi. I debitori ultimi, i consumatori, devono rientrare dai debiti, e questo fa cadere la domanda. Visto che i prestiti concessi a consumatori e alle imprese non possono che ridursi, dopo un altro po' di tempo cade la produzione reale e l'occupazione, e di seguito anche l'investimento e il consumo. Se questo è il quadro di fondo, le ragioni dell'intervento sull'Aig sono però, per ora, altre. Così come per il salvataggio di Bear Stearns a marzo e la nazionalizzazione di Fanny Mae e Freddie Mac pochi giorni fa, qui ha giocato la considerazione delle dimensioni e delle interconnessioni finanziarie, insomma il timore dell'effetto domino e dell'aggravarsi del deceleratore finanziario.

E perché le autorità non hanno deciso e fatto lo stesso per Lehman Brothers?
Questo è un punto interessante. E credo non abbia pesato solamente il timore dell'azzardo morale o di oneri troppo gravosi sul bilancio pubblico. Conta, piuttosto, quanto già sostenevo in un'altra intervista a Liberazione. Abbiamo a che fare con interventi pienamente politici, e dunque discrezionali. In questo caso, senz'altro, hanno pesato gli effetti prevedibili su mutui immobiliari, sulle pensioni, e simili, a cui ti riferisci. Ma è un intervento diretto e politico, dove la Fed accetta di sostenere l'economia con collaterali fatti di strumenti finanziari o azioni dal valore dubbio o inconsistente, e dove ha la sicurezza dell'intervento in seconda battuta del Tesoro che li può trasformare a tempo debito in titoli di stato. È il costituirsi, a tentoni, per tentativi ed errori, di una nuova politica monetaria in un nuovo mondo. Nel frattempo, lo sganciamento, il decoupling, si è sciolto come la neve. Era dubbio che la globalizzazione potesse funzionare come volano quando l'economia mondiale andava bene, e non anche in senso depressivo nella crisi. Per questo assistiamo all'Europa che sta cadendo in recessione, all'America Latina che traballa, e alla Cina che rallenta al punto da far intervenire in senso espansivo la Banca Centrale cinese anche se il tasso di crescita è ancora elevato. Il tutto si aggraverà con l'esaurirsi della timida politica espansiva di Bush di inizio anno e basata su tagli alle tasse.

L'epicentro della crisi è la finanza Usa, perché? È la fine della turbo-finanza che rende qualsiasi "cosa" (aziende come materie prime) ingranaggio della speculazione al di là di qualsiasi considerazione economica reale?
È la crisi della nuova finanza, senz'altro. Si è detto molto nei mesi passati dei caratteri patologici dei derivati, che invece di proteggere dal rischio lo diffondono e nascondono, per cui non ci insisterò più di tanto. Sottolineiamo un altro punto, collegato. Nel nuovo sistema, che vede al centro proprio quelle banche di investimento che oggi vediamo crollare l'una dopo l'altra, gli istituti di credito non guadagnano selezionando gli imprenditori, ma grazie alle commissioni sulla collocazioni di strumenti finanziari di cui, appena creati, ci si disfa rapidamente. Quando le cose vanno bene, la riduzione del capitale rispetto ai crediti concessi perseguita dagli operatori finanziari non è affatto irrazionale: è il sistema ad essere malato. Di qui la riduzione del premio al rischio, la sopravvalutazione dei debitori, e così via. Questo mondo sembra essere finito. Ma bisogna intendersi. Questa esplosione della turbo-finanza non è separabile dall'economia reale buona. Tra il 2003 e il 2007 vi è stato un boom mondiale reale che non si può trascurare, e che si basava su questa cartaccia. E il suo perno ultimo era senz'altro costituito dagli Stati Uniti e dal gonfiamento del debito delle famiglie. Come era stato per il boom della borsa, la bolla immobiliare e poi l'esplosione dei subprime per sostenerla hanno creato le condizioni per far crescere la domanda di consumi "autonoma" dal reddito, in forza di quello che viene chiamato un "effetto ricchezza". Il paradosso è che questo modello è l'altra faccia di bassi salari e precarietà. Se i consumi non crescono via salario, possono crescere via indebitamento: bassi salari e alto indebitamento sono un fattore potente di precarizzazione (e viceversa). Il problema che ci si trova davanti è dunque questo per chi gestisce il sistema: come far proseguire una situazione di bassi salari e precarietà, senza affogare nella melma della nuova finanza, e senza un ristagno della domanda. Credo che si cercherà di recuperare i nuovi strumenti finanziari, in forma riveduta e corretta, con una più stringente regolazione. Ma intanto c'è da affrontare una doppia sfida: come intervenire nella congiuntura, e come ricostituire un nuovo meccanismo di regolazione. Come passare dalla "convenzione" Greenspan, che ha retto dal 1987 al 2007, a una nuova convenzione. Bernanke in un certo senso si trova in una realtà che conosce, sia pure solo sulla carta. È un esperto di Grande Crisi, di deflazione giapponese, di acceleratore finanziario. È un fautore del inflation targeting, ma sa che espansione e depressione sono fasi diverse e richiedono politiche diverse: oggi l'inflazione non lo preoccupa. La colpa che gli viene imputata è di aver creduto, come Greenspan, che sulle bolle speculative non si può intervenire. Ma nella crisi, dopo un ritardo iniziale, è stato disposto a mosse rapide, decise e innovative. Ha abbattuto i tassi di interesse a gennaio in meno di un mese, e ora sta navigando in mare aperto per definire delle politiche di salvataggio che, volenti o nolenti, imporranno alla politica un nuovo attivismo. Insomma, la crisi si aggraverà nel breve periodo, ma non sottovaluterei né l'inventiva del capitale né le risorse di una politica di riforma dall'alto nel medio periodo: non sanno forse di farlo, ma lo fanno.

L'Europa sembra ancora più conservatrice degli Usa, pompa liquidità e insiste nel contenimento del suo ruolo al mandato esclusivamente di stabilizzazione monetaria. Eppure diversi governi europei sembrano chiedere un intervento anti-crisi più determinato. C'è un problema di governance o di cieca fedeltà ideologica?
È vero, ma solo in parte. Trichet ha detto che al di là dell'Atlantico avrebbe fatto le stesse politiche di Bernanke. In un certo senso c'è da credergli. L'ossessione anti-inflazionistica viene alla Banca Centrale Europea dal timore di un aumento dei salari. Il che appare un po' buffo. Tra i cambiamenti dell'ultimo decennio o giù di lì vi stanno due grandi novità rispetto all'ortodossia dominante in economia sino a pochissimo tempo fa. Le banche centrali provvedono ormai liquidità ai mercati con molta maggiore liberalità di quanto volesse il vecchio monetarismo (con termine tecnico, si dice che l'offerta di moneta è "orizzontale"). E infatti la Bce è stata molto interventista a sostenere i mercati da questo punto di vista, come se non più degli Stati Uniti. La seconda novità è che la cosiddetta curva di Phillips (che lega disoccupazione e dinamica dei salari) è divenuta "piatta": quando si riduce la disoccupazione, i salari aumentano poco o niente. E invece, la Bce sembra voler continuare a combattere con ferocia la vecchia battaglia. Il problema in realtà è che teme un effetto di ritorno sul costo del lavoro dell'inflazione dall'aumento del prezzo delle materie prime, del petrolio, degli alimentari, e così via, che falcidiano i salari: difficile, ma non impossibile, visto che in Europa il sindacato è sconfitto ma esiste ancora. La spinta verso un intervento anti-crisi dal lato della politica degli Stati europei è dunque comprensibile, ma non dice granché in sé. Come sai, penso che il liberismo sia qualcosa che non esiste, e trovo sbagliato intestardirsi a ragionare in termini di liberismo verso statalismo. La nuova economia, la bolla immobiliare, la risposta alle crisi del 2001 e a questa, per non riandare indietro a Reagan, sono avvenute in un pieno di politica. E non è necessario richiamare la critica al mercatismo di Tremonti per far capire che il neoliberismo tutto è meno che anti-interventista, a suo modo beninteso. Quello che ci deve sempre interessare è capire le trasformazioni dell'interventismo. Il problema è dunque quale intervento politico, non se questo ci sarà o meno . Non sono mai stato crollista, né credo all'anarchia del mercato. A una crisi del genere si dovrebbe rispondere diversamente, è chiaro: con una espansione coordinata, basata sulla domanda interna, con un controllo della finanza, e, a ben vedere, con una riqualificazione dell'offerta. Perché questo è il messaggio forte e chiaro che ci viene dalla crisi energetica e dalla crisi alimentare, come dalla crisi dei consumi. È chiaro che in questo contesto il problema lo si può porre, non lo si può neanche iniziare a risolvere. Ma il problema esiste. Ed è "il" problema, senza cui per di più non esiste sinistra. Dal lato capitalistico, le ultime mosse, da Bear Stearns a Lehman Brothers, e oltre ci parlano di una politicizzazione crescente dell'offerta di credito, se si vuole di una sua centralizzazione ulteriore, il che può preludere in un futuro non troppo lontano a scelte su nuovi settori su cui puntare. Non è la prima volta: la nuova economia viene dalle politiche statuali Usa tra ottanta e novanta, il boom fondato su immobili e subprime dalla politica monetaria di Greenspan.

Disastro o una salutare doccia fredda che riporterà l'economia più verso il reale e meno verso il virtuale finanziario?
È prevedibile, come ho anticipato, una crisi lunga e lenta: ma non senza termine. Il punto è che però una finanza più regolata e meno speculativa si accompagnerà a un credito più razionato e più costoso, e a un governo sulla composizione della produzione sempre più disegualitario e forse sempre più arbitrario. I commentatori di destra o moderati insisteranno sulla "regolazione" della finanza come panacea, e la regolazione certo non fa male; quelli della sinistra ci ricorderanno, e a ragione, che pagherà come sempre il lavoro. Non mi aspetto un degrado generale omogeneo, ma una frantumazione crescente. Il che significa che questa crisi, come ogni ristrutturazione significativa (e se non ci sarà un approfondimento nel breve della crisi, non ci sarà quella ri-regolazione di cui il capitale ha bisogno) agirà come una purga sull'apparato produttivo e sull'economia reale, come già ha fatto in piccolo la crisi del 2001-2004, che ha visto anche da noi innovazioni di prodotto e buoni risultati per medie imprese multinazionali, in un contesto però di grande fragilità. E la crisi è un ottimo alibi per sfondare sul terreno sindacale e del mondo del lavoro.

18/09/2008 liberazione

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