venerdì 21 marzo 2008

Interclassismo, il sogno impossibile del Pd

da il manifesto 19/03/2008

«Gli imprenditori sono lavoratori? Veltroni si rilegga Smith: gli operai lottano per aumentare il salario, i padroni per diminuirlo». «Lo scontro tra lavoro e capitale è finito? Certo qualcuno lo sta vincendo». Parla il sociologo Gallino

Daniela Preziosi

Walter Veltroni confessa che a sentir parlare di conflitto di classe diventa pazzo? «Gli ricordo una battuta di Warren Buffet, l'uomo più ricco del mondo. Io non so bene se negli Stati Uniti ci sia il conflitto di classe, ha detto, ma se questo conflitto c'è è sicuro che da qualche parte lo stiamo vincendo noi». Ma non se la cava così, il professor Luciano Gallino, torinese, fra i più autorevoli sociologi del lavoro. Ieri il bus elettorale di Veltroni è arrivato a Torino. La città del suo annuncio della corsa da premier, del suo primo congresso da segretario dei Ds (nel 2000, quello di I care ). Ma anche - soprattutto, diremmo noi - la città di Gramsci, Gobetti, della Fiat, delle lotte operaie.
«L'imprenditore è un lavoratore». E' una delle frasi cult di Veltroni. Quali modificazioni della definizione di lavoro introduce?
Un'impostazione del genere vorrebbe mettere tutti sulla stessa scala di professione, dove ci può essere chi è più qualificato, chi meno, chi guadagna di più, chi meno. Ma tutti fanno parte dello stesso bacino del mercato del lavoro. Non sono d'accordo, ma almeno dovrebbe fare qualche distinzione. In Italia abbiamo milioni di lavoratori autonomi, in buona parte titolari di imprese individuali. Le cose cambiano quando l'imprenditore ha dei dipendenti. Detto con tutto il rispetto, l'imprenditore può anche lavorare quattordici ore per la sua azienda, ma decide il salario dei suoi dipendenti. E il conflitto tra le due parti è inevitabile. Come diceva Adam Smith, l'interesse dei lavoratori è quello di avere un salario più alto, quello degli imprenditori è di darlo più basso possibile.
Il Pd invece cancella programmaticamente il conflitto di classe e si rivolge con lo stesso tono amichevole tanto all'imprenditore che al lavoratore. E' possibile tenere insieme tutte queste cose?
Bisogna distinguere tra la posizione del gruppo dirigente del Pd, che punta a acquisire quel 26 per cento di lavoratori autonomi, che con le loro famiglie sono un terzo dell'elettorato, dalla base del partito. Dove le cose non sono così ovvie, visto che nel Pd sono confluiti milioni di persone che vengono dai Ds, persino dal Pci. Persone tutto sommato ancora abbastanza di sinistra, e che vengono per esempio da regioni come la Toscana o l'Emilia Romagna dove quella cultura è ancora importante. Anche a me non è chiaro come i gruppi dirigenti riescano a convincerle.
Il Pd si vantaa di candidare Colaninno e un operaio. E alcuni sindacalisti, persino della sinistra.

Fra l'altro gli imprenditori candidati non si sono affatto caratterizzati fra i loro colleghi per sensibilità 'socialista', socialdemocratica, forse neanche democratica.
Il Pd è diventato il partito 'di riferimento' dei tre più grandi sindacati. Come ne escono modificate Cgil, Cisl e Uil?

La questione riguarda soprattutto la Cgil. Negli anni passati già si avvertiva uno spostamento sensibile verso il centro. In più occasioni ho sentito dirigenti usare gli argomenti del professor Renato Brunetta (economista di Forza Italia, ndr ). Ora questo spostamento è diventato della maggioranza, anche se con eccezioni riguardevoli come i metalmeccanici. Per la Cisl e la Uil il problema si pone meno, erano già più di centro che di sinistra, e quindi sono più o meno rimasti dov'erano. Lo spostamento della Cgil al centro è interessante su un piano analitico, ma soprattutto preoccupante. Ha portato in piazza tre milioni di persone per salvare l'articolo 18. Erano sei anni fa, sembrano molti più più.
Il Pd non chiede l'abolizione dell'articolo 18. Ma Pietro Ichino, suo autorevole candidato sì. E a differenza di sei anni fa, questo non provoca un finimondo. All'epoca la Cgil sosteneva che l'articolo 18 era un diritto costituzionale.

Quella di oggi è un'apertura alla tesi della Confindustria, persino di una sua parte: due anni fa alcuni industriali hanno detto che l'articolo 18 non ha poi quell'incidenza catastrofica per loro. Il rischio è che se si mette in forse quell'articolo, caschi tutto lo Statuto dei lavoratori, l'intera legge 300. Che fu un importante tentativo di tradurre in legge i principi della Costituzione. Oltre a quello, ci sono altri quattro-cinque articoli sui diritti fondamentali: i contratti, la libertà di rappresentanza, il diritto a non essere giudicati in base all'appartenenza sindacale e a qualunque altro predicato culturale o politico. Se saltano tutto questo, si torna indietro di 70 anni.
Parliamo del programma del Pd sul tema del lavoro. Cosa pensa del «compenso minimo di mille euro per i collaboratori economicamente dipendenti»?
Ho chiesto qualche chiarimento, ma finora non ne ho ricevuti. Il problema di quelli che hanno un'occupazione flessibile, instabile, in parole povere precaria, non è solo quanto guadagnano, ma anche per quanti mesi guadagnano. Magari hanno anche mille euro al mese, ma per sei mesi e non per tredici, come i lavoratori 'normali'. E poi bisogna capire che strada si imbocca: è meglio pagare un reddito minimo a chi non lavora, oppure lavorare affinché i contratti diventino a tempo indeterminato? Fra le due cose c'è l'immensa questione dei costi. E c'è la questione della 'flessicurezza', che certo non può essere un compenso alla libertà di licenziamento. E tuttavia fatta 'alla danese' ha aspetti interessanti: mantiene il 90 per cento del reddito per quattro anni. Ma quanto costa? Per le politiche attive del lavoro la Danimarca spende il 4 e mezzo per cento del Pil, noi l'uno e mezzo. Dovessimo fare come loro, dovremmo spendere 70 miliardi di euro. Da dove escono fuori? Puntare sulla stabilità dell'occupazione conviene di più che non sui mille euro al mese dati non si sa bene a chi. I servizi efficienti, poi, che il Pd chiede, significa decine di migliaia di formatori, centri per l'impiego su grande scala. Roba che non si accoppia con la battuta persino triste 'abbassiamo le tasse'. In Danimarca quell'idea si basa su un insieme di prelievi obbligatori - fisco, sanità, previdenza eccetera del 55 per cento circa. Noi siamo al 43. E lo vogliamo abbassare? Qui c'è un problema: che qualcuno si deve mettere a fare qualche conto con la calcolatrice.

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