martedì 25 marzo 2008

Ossessioni antidemocratiche

il manifesto 23.03.2008
Gianni Ferrara

Non è stato casuale il rovesciamento - che Rossana Rossanda giustamente rilevava sul manifesto del 10 marzo - del senso e della pratica della democrazia in Italia. Enorme è, infatti, la distanza che separa la partecipazione tanto diffusamente e anche tumultuosamente predicata e sperimentata quaranta anni fa e la rassegnazione attuale all'offerta di un potere, da esercitare per qualche minuto in un solo giorno ogni quattro o cinque anni col nudo voto, fortunatamente ancora libero e formalmente eguale, che siamo chiamati a dare alle elezioni politiche.

Così come non è dovuta a qualche congiunzione astrale la liquidazione dei partiti di massa, che sembravano allora inadeguati a una democrazia a forte intensità, e la loro sostituzione con quegli informi assemblaggi di seguaci solitari, ignoti gli uni agli altri, di chi o è eletto, su designazione e col patrocinio di una elite, in qualche primaria o, addirittura, si autoproclama capo e si candida alla massima carica politica. Sono non-partiti, ma platee telematiche immaginate e usate non come sedi per favorire o almeno consentire che le donne e gli uomini che le frequentano possano esprimere una qualche pur minima scelta di obiettivi, di programmi, di senso del loro esistere in vista di una immaginabile concezione della società, ma solo per assistere alla farsa della politica recitata da un uomo solo, da acclamare prima e da votare poi. Se, insomma, si è passati dalla sovranità alla governamentalità, (come la chiama Agamben), pur volendo riconoscere autocriticamente il deficit culturale della sinistra (Marramao) cioè del soggetto che ha inventato e ha costruito la democrazia e si è in essa immedesimato, qualche altro fattore imponente, pervasivo e devastante deve esserci stato.
Credo che questo fattore sia da individuare nella liberazione del capitale finanziario dalla potestà degli stati e nel successivo dispiegamento della forza così acquisita e della logica che gli è propria. L'una e l'altra si sono infatti incorporate in principi giuridici e in apparati di sostegno e di imposizione, quindi oltre l'ambito dell'economico e degli istituti giuridici che immediatamente a questo ambito si connettono, espandendosi in tutte le direzioni. Nella dimensione mondiale con le istituzioni della globalizzazione, in Europa, traducendosi nelle normative dei trattati sull'euro-mercato e sull'euro-sistema. Normative che hanno catturato la politica. La hanno sostituita nei fini e nei modi. Ne hanno negato il ruolo, quello di recepire, definire, coordinare e soddisfare bisogni umani, riconoscendoli e definendoli come diritti dopo averli selezionati. La hanno catturata per ridurla e curvarla alla logica della «economia di mercato aperta e in libera concorrenza», elevata a principio supremo e a fine prioritario di un sistema istituzionale. Perciò la normativa contenuta nei Trattati europei smobilita istituti, prassi, intere normative volte a prevedere e a regolare gli intereventi statali nell'economia.
E predispone apparati, procedure, sanzioni, un complesso sistema di garanzia, attiva e incessante, diretta a preservare l'autoregolazione del mercato capitalistico cui fornisce tutti gli strumenti necessari per assicurarne l'intangibile riproduzione.
Neutralizzata la politica, si è conseguentemente atrofizzata la democrazia, poca o tanta che fosse quella storicamente realizzata nella «forma» stato, sia mediante gli istituti che definivano «sociale» lo stato che assumeva detta «forma», sia in virtù della democrazia partecipata che otteneva l'attuazione delle promesse proclamate dalle Costituzioni del secondo dopoguerra. Che, come tutti i diritti, costano. A pagare questo costo, mediante un'imposizione fiscale basata sulla progressività, lo stato sociale chiamava tutti. Senonché i possessori di capitali, che hanno sempre goduto e godono dei diritti tradizionali e di alcuni di questi in via esclusiva, hanno provveduto e possono provvedere privatamente a tutto quanto costituisce il contenuto dei diritti sociali. Chiamarli a pagare il costo dei diritti al cui godimento non erano interessati comportava qualcosa che il capitale giudica inammissibile, la determinazione della retribuzione del capitale operata da altri, fosse pure lo stato. Avrebbe significato e significa incrinare la sua autonomia, limitare il suo potere. Da qui l'ideologia della insostenibilità della democrazia da parte del sistema economico, la «controriforma» dello stato sociale, l'ingovernabilità da curare con la «democrazia decidente».
In questa campagna elettorale si sente insistente, ossessivo lo slogan diffuso con enorme efficacia dai mezzi di comunicazione di massa dell'ideologia delle classi dominanti: «decidere, decidere, decidere». Ne sottende un altro, quello vero: recidere, recidere, recidere. Recidere le domande della democrazia, recidere i diritti, recidere l'eguaglianza dalla qualificazione «sostanziale» e ridurla a quella dei punti di partenza, sapendo che sono differenziati, distanziati, diseguali. Invece della partecipazione, si progetta un ulteriore attacco alla rappresentanza, già resa incredibile con la sottrazione agli elettori del potere di scegliere le persone da eleggere, sempre più manipolata al fine di trasformare i rappresentanti in addetti a eseguire i dettami di un capo, già mortificata dalla compressione del dibattito elettorale riservandolo ai soli leaders e dall'elusione dei grandi temi.
A opporsi a questa deriva che, prima ancora che politica, è intellettuale, morale, civile, mi pare sia solo la Sinistra Arcobaleno. Per questo penso che sostenerla e votarla sia soprattutto una necessità.
Gianni Ferrara

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