venerdì 21 marzo 2008

Le contorsioni «dialettiche» del liberista spiazzato

da il manifesto 19/03/2008

Le contorsioni «dialettiche» del liberista spiazzato
Tommaso De Berlanga

Il panico delle borse è infettivo. Si sa. Quando il virus della paura si insedia nei cervelli ogni incubo prende improvvisamente corpo. Fantasie che solo pochi giorni prima sarebbero state accolte con un sorriso sembrano ora plausibili. E pensosi ragionatori squinternano altrettanto improvvisamente i loro ragionamenti. Ma non sono solo le borse a tremare. Banche ed economia reale emanano scricchiolii assordanti, che evidenziano anche ai ciechi i tratti caratteristici di una «crisi di sistema». E tanti difensori strenui del liberismo economico durissimo e purissimo si mostrano ormai tentati dal chiedere che lo Stato ricominci a intervenire, visto che il «dio mercato» - da solo - proprio non riesce a regolarsi. Persino Alberto Alesina, autore insieme a Francesco Giavazzi di un fortunato pamphlet da pochi mesi in libreria ( Il liberismo è di sinistra , non a caso), viene iscritto dal suo giornale (il Corriere dell a sera ), tra i «pessimisti» che optano per questa soluzione. Bene. Si apre uno spazio immenso per i critici del «liberismo mercatista». Di destra come Giulio Tremonti o di sinistra come Paolo Leon. Il keynesismo può riaffacciarsi sui media, oltre che nell'accademia, con una sua immutata dignità e qualche capacità propositiva. Persino i marxisti potrebbero a questo punto far risentire credibilmente la propria voce. Se n'è accorto Massimo Gaggi, corrispondente dagli Usa per il Corsera , che brandisce perciò carta e penna per sbarrare la strada ai risorgenti «statalisti», che potrebbero esercitare un qualche influsso sui poveri lettori «tentati di interpretare le difficoltà degli Usa come una crisi di sistema del capitalismo globalizzato». Per difendere la purezza e l'efficacia del liberismo non esita a buttar giù dalla torre l'amministrazione Bush - «un gruppo dirigente pasticcione e troppo ideologizzato» - responsabile di «un'applicazione caricaturale» del modello economico prediletto. Nella fretta di trovare un esempio chiarificatore inciampa nella «privatizzazione della guerra all'Iraq», dove «i costi, anziché ridursi, si son moltiplicati». Accade anche nella nostra sanità e in genere in ogni «esternalizzazione» dalla pubblica amministrazione. E siamo stati tentati dal sorriso al pensiero che «tutto il mondo è paese», anche la mitizzata America dei nostri soloni liberisti. Sorriso ghiacciato sul nascere dalla domanda che Gaggi ci pone: «cosa c'entra il mercato, quando il lavoro di un soldato viene sostituito con quello di un contrattista privato pagato dieci volte di più e scelto senza gara?» Mettiamo da parte ogni considerazione sul «mestiere delle armi» svolto in «difesa della patria» e altre amenità. Gaggi si indigna perché quei contractors sono stati scelti «senza gara d'appalto»; noi al pensiero che «il lavoro di un soldato» possa magari essere sottoposto a misurazioni di «produttività». Con qualche esito splatter . Ma tutto ci diventa chiaro quando afferma che gli Usa «non dovrebbero ispirare richieste di 'più Stato' nemmeno se questo paese ferito cercasse di costruire un altro New Deal ». Loro possono, noi (liberisti, ancorché solo europei) no. Pur di salvare l'ideale del liberismo Gaggi finisce per somigliare a quei comunisti non molto critici che negli anni '80 provavano a distinguere tra l'Unione Sovietica in crisi e l'immobilismo di Breznev. Ci sembra che il suo sforzo sia destinato ad avere altrettanto successo.

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