giovedì 20 marzo 2008

Ora c'è chi scopre «la crisi strutturale»

da il manifesto 18/03/2008

Rotture. Si spaccano le classi dirigenti, tra liberisti ciechi e neoconservatori in vena di populismo
Francesco Piccioni

«Nel salvare la banca Bear Stearns, Ben Bernanke ha fatto l'errore di non avvertire prima Giavazzi (editorialista del Corsera, ndr), che gli avrebbe spiegato che una mossa del genere non è prevista dalle teorie sul libero mercato». La battuta con cui Giulio Tremonti, a Cernobbio, ha divertito i suoi interlocutori ha l'indubbio merito di centrare il punto: l'esplosione della crisi finanziaria (ormai anche dell'economia reale) chiede risposte urgenti e non scolastiche, perché segna un punto d'arrivo «strutturale» del processo chiamato «globalizzazione». Ma le «cure classiche» previste dalla teoria liberista (riduzione della spesa pubblica, taglio delle tasse, liberalizzazioni, ecc) non funzionano più. Ciò non significa però che le istituzioni pubbliche - le banche centrali quantomeno - siano rimaste a guardare. Riduzione dei tassi di interesse, iniezioni di liquidità, accettazione di titoli-spazzatura come «garanzie», si susseguono un giorno dopo l'altro. Senza esito.
La Federal Reserve e la banca d'Inghilterra sono intervenute rompendo le regole del mercato; la prima per salvare Bear Stearns, la seconda nazionalizzando la banca Northern Rock. Se ne deduce che l'«intervento pubblico» sta avvenendo, con impegno di risorse finanziarie ingentissime. E quindi si può legittimamente tornare a discutere «quale» intervento pubblico sarebbe più efficace. Se, insomma, sia meglio tutelare i corsari della finanza oppure investire nell'economia reale, o in «stimoli alla domanda».
Il «pubblico» di Tremonti fa rima con «valori, identità, tradizione, spirito», rispolverando il conservatorismo sempre annidato nelle pieghe della società italiana. Ma è al momento l'unica visione che si presenti come «alternativa» alla pura e semplice riproposizione delle stesse ricette che hanno prodotto questa crisi che entrerà nella Storia. Il «mercatismo liberista» ha in Confindustria il centro elaboratore, ma trascina anche la fascia alta del commercio (grande distribuzione, turismo, ecc). E nei media i principali i megafoni. I partiti seguono. Chi perché non ha mai avuto nulla di diverso da proporre, chi - come il Pd - perché ci ha messo un ventennio ad assumere pienamente la visione liberista e non riesce proprio a vederne i limiti nemmeno adesso che sta franando insieme ai mercati. Manca - e si sente - una visione della crisi globale che produca anche proposte di vie d'uscita alternative alla sterile (e, in prospettiva, pericolosa) contrapposizione tra «liberisti puri» in accanimento terapeutico e «conservatori tradizionalisti» in vena di riscoperta destrorsa del «pubblico». Tra chi insomma non vuol vedere la macelleria sociale che il liberismo globalizzato provoca e chi pensa di sfruttarne populisticamente le conseguenze in loco.
Se un vecchio liberale come Alberto Quadrio Curzio arriva a sintetizzare la fase alle nostre spalle come «l'illusione che si potesse consumare senza produrre, consumare senza pagare, investire senza risparmiare», arrivando anche a riconoscere che «è impossibile lo sviluppo senza limiti», vuol dire che qualche meccanismo-chiave si è rotto definitivamente. «La crisi è strutturale», è lo slogan che torna a risuonare nei pensatoi d'Occidente. Meno che a sinistra, dove pure è stato elaborato a suo tempo e dovrebbe essere perciò compreso nel suo senso profondo. Politico e storico. Perché non si dà una sinistra politica che non sia capace di affrontare - sul piano analitico, intanto - la «crisi di sistema».

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